venerdì 20 settembre 2013

Storia del Secolo: il 1956 e i carri in Ungheria. Il 1957 e il ritorno del Duce




Annalisa Terranova

Nell’ottobre del 1956, in occasione della rivolta d’Ungheria, il Secolo è ancora una volta centrale nel seguire le vicende dell’invasione sovietica. Il 25 ottobre il quotidiano titola a tutta pagina: “Massacrati i patrioti ungheresi dalle truppe russo-comuniste”. In una corrispondenza da Vienna pubblicata in prima si legge: “Un silenzio di morte è sceso lungo la cortina di ferro trasformatasi, in seguito al massacro di Budapest, in una vera e propria cortina di sangue”. In un altro pezzo si sottolinea la difficoltà di reperire notizie (allora come oggi uno scenario di conflitto può essere giornalisticamente “coperto” solo stando sul campo) e si lascia intuire la drammaticità della situazione: “Radio Budapest continua a lanciare appelli che in Occidente possono a malapena essere uditi, perché continuamente disturbati. In tali appelli vengono chiaramente ammessi accaniti combattimenti per le strade, l’impiego di truppe sovietiche e numerosi morti…”. Il giorno seguente il titolo di prima recita: “Disperata lotta del popolo magiaro contro la bestiale reazione comunista”. Un titolo a nove colonne sormontato dal seguente occhiello: “Gloria agli eroici combattenti dell’Ungheria Libera”. 

Due giorni dopo un editoriale rivendica la data del 28 ottobre legando la ricorrenza alla ribellione anticomunista: “Il Secolo d’Italia in nome dei milioni di fascisti che ieri furono orgogliosi di esserlo, che operarono e si sacrificarono e domani torneranno nelle nostre schiere, saluta con commossa solidarietà coloro che la stampa comunista ha onorato definendoli i “fascisti” di Budapest e si inchina per rendere omaggio agli Eroi anticomunisti di Ungheria accomunandoli a quanti hanno difeso la Causa della Civiltà contro il criminale bolscevismo di Mosca”. Il Secolo invierà due corrispondenti a seguire i fatti d’Ungheria: il caporedattore Giuseppe Dall’Ongaro, che negli anni Settanta sarà direttore de Il Settimanale, e la giornalista Nelly Tasnary, ungherese di nascita, moglie di Filippo Anfuso.

L’anno seguente, nel 1957, il giornale promuove una campagna di firme per sollecitare la restituzione della salma di Mussolini alla famiglia, consegna che avvenne il 30 agosto del 1957 per interessamento dell’allora capo del governo Adone Zoli (Dc), nativo di Predappio. Il Secolo dà conto della notizia con un titolo a tutta pagina: Mussolini restituito all’Italia. Sotto, una grande foto di donna Rachele, fazzoletto nero in testa, che accoglie i resti del marito nel cimitero di San Cassiano. Colpisce la sua espressione, afflitta ma dignitosa. Nell’editoriale di Franz Turchi, dal titolo “Ritorna”, si rivendica la battaglia “per la fine del dopoguerra, per la pacificazione tra gli italiani, per il ritorno della Patria a se stessa. Viva il Duce! Viva l’Italia”. Turchi replica inoltre alle critiche della Dc che accusava il Msi  di avere strumentalizzato l’evento e chiarisce che lo stesso De Marsanich gli aveva chiesto di interrompere la campagna del Secolo  per permettere al presidente del consiglio Zoli di fare il suo dovere senza pressioni e interferenze politiche. Si trattò dunque, stando a questa testimonianza, di una campagna autonoma e non eterodiretta dal Msi. Sulla prima che annunciava il “ritorno” di Mussolini scrisse anche Filippo Anfuso: “In campagna elettorale i miei siciliani mi chiedevano ‘Unn’è Mussolini?’. I siciliani che mi chiedevano di lui sapevano benissimo che egli era dovunque fossero coloro che in lui avevano creduto”.
Sono rimasta stupita, rivedendo quelle pagine, dal finale del fondo di Turchi, da quel Viva il Duce! in prima pagina: ma eravamo a dodici anni dalla fine della guerra e dalla fine del fascismo, eventi che segnavano in profondità la società italiana, davvero bisognosa di una pacificazione. Basti pensare che il Msi organizzò in tutte le città messe in suffragio per Benito Mussolini che finalmente “riposava in pace” e molti si presentarono a quelle celebrazioni con la camicia nera. Oggi la strumentalità sia dell’antifascismo sia del neofascismo appare tanto più evidente rispetto alla sincerità degli episodi che sto raccontando e anche molto più ipocrita, perché tesa al solo tornaconto elettorale.




Nel 2007, 50 anni dopo la riconsegna della salma del Duce alla famiglia, sul Secolo diretto dalla “compagna” Perina e dal “compagno” Lanna scrissi un lungo articolo su donna Rachele, raccontando di come l’avevo conosciuta, durante uno di quei “pellegrinaggi” organizzati nei “luoghi della memoria” che costituivano uno dei passatempi preferiti dai missini. Ecco un passaggio di quell’articolo: “Poterla conoscere era per un giovane frequentatore di una sezione del Msi un insperato privilegio. Anche chi scrive ha fatto parte un giorno della speciale comitiva di giovani in visita a Villa Carpena, che comprendeva numerosi attivisti delle sezioni romane Colle Oppio e Prati. Erano i luttuosi anni Settanta. Lei ricevette quel gruppo romano sotto un pergolato. Vestita di nero, nero anche il fazzoletto che le copriva i capelli, annodato alla contadina dietro la nuca. Appariva piccola ma non fragile, e colpivano in modo particolare quei suoi occhi chiari, vivacissimi e mobili, che si posavano a turno su ciascuno. Parlò a lungo, in una lingua più simile al dialetto che all’italiano. Pochissimo si comprendeva di quella narrazione non più concitata ma non ancora distaccata, in cui continuamente veniva citato il maresciallo Badoglio e in cui il marito non era Benito ma, semplicemente, il Duce. Il nostro fu un omaggio silenzioso. Nessuno se la sentiva né di chiedere né di interloquire. Ce ne andammo con il ricordo di quello sguardo azzurro e luminoso, da nonna saggia che ne aveva viste troppe, ma senza lasciarsi “inquinare”. Eppure, quella donna da cui sembrava che la storia si fosse tenuta distante, preservandola dalla tragedia e consegnandola a un ritiro campestre, fitto di ricordi e di nostalgia, era stata a suo modo protagonista di uno dei matrimoni più anticonformisti del secolo. Rachele e Benito si unirono civilmente in matrimonio nel dicembre del 1915 e si sposarono con il rito religioso solo dieci anni dopo, nel 1925. Due matrimoni, ma senza viaggi di nozze, perché lo sposo era troppo indaffarato. Finché lui non se ne ricordò, un giorno, dopo la proclamazione dell’Impero, e le disse di prepararsi per quel viaggio di nozze sempre rinviato. Era stata inaugurata da poco la littorina che congiungeva Roma a Riccione. Il Duce la “sequestrò” per ventiquattro ore, ci fece salire solo la moglie e, messosi al posto di guida, la condusse fino a Riccione”. 

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