martedì 3 settembre 2013

Son state solo canzonette? La musica pop come segno dei tempi e segno anche politico


Marco Iacona
La musica non è solo insieme di note, pause e intervalli. Forse è così da sempre, sicuramente lo è da sessant’anni. Più o meno dalla nascita della musica popolare o popular music o pop. Come fenomeno di massa la musica trasmette più di quello che un delizioso passaggio orchestrale sia in grado di offrire, forse perfino più di una strofa ben inserita o di un motivo ripetuto con insistenza. Ed è ovvio che l’esplorazione del significato per così dire autentico di un brano pop sconti l’obbligo della forzatura, dovuta alla sensibilità politica di questo o quel critico: sensibilità o insensibilità, naturalmente. Il libro di Eugenio Capozzi professore di storia contemporanea all’università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli – Innocenti evasioni. Uso e abuso politico della musica pop: 1954-1980 (Rubbettino, 2013) – ci parla di tutto questo da un’ottica per così dire “moderata”. La tesi del libro è semplice e continuamente sottoposta a verifica grazie a una serie di prove e alla trascrizione dei testi delle canzoni. C’è un grave luogo comune, dice l’autore, che pesa sulla musica giovanile sia essa straniera che a maggior ragione italiana. Si dice infatti che questa sia stata espressione di ribellione politica da parte delle nuove generazioni e che il pop/rock – generalmente inteso – sia sovversivo e portatore di una propria autenticità negatrice del mercato. A casa nostra invece si è sempre detto e scritto che la musica italiana negli anni caldi Sessanta-Settanta sia andata a braccetto con la politica inaugurando il particolare genere della cosiddetta canzone impegnata. Per Capozzi sia l’una che l’altra “certezza” costituiscono un falso, anzi sono delle vere e proprie truffe ideologiche, costruite a tavolino per ragioni politiche da una generazione (quella sessantottina, nelle componenti più estreme) che ha cercato di «nobilitare» una parentesi della propria vita come avrebbe fatto qualsiasi reduce elaborando e rielaborando le proprie memorie.La popular music invece, per Capozzi, è strettamente connessa all’industria del divertimento, della comunicazione e dell’intrattenimento, fatta proprio per quella parte di mondo che da più di mezzo secolo ha raggiunto un buon livello di benessere. Ed è anche per questo un contenitore aperto a qualsiasi idea o passione, non esclusa naturalmente anche la volontà di ribellione. Insomma il pop volta a volta è politico e impolitico, tradizionalista e progressista, vuol integrare e discriminare ed è moderato e ribelle a seconda degli autori e a seconda dei tempi. Valga per il rock – che è una parentesi ribellistica del pop ma è solo uno stile nell’universo musicale – valga per la canzone italiana nella quale progressismo e «passatismo» si intrecciano in continuazione anche all’interno della produzione di uno stesso artista. Il pop è una grande macchina che produce emozioni e lo si voglia o no è parte integrante dell’occidente moderno. Possiede propri simboli, miti e naturalmente riti del tutto particolari. Ma il saggio di Capozzi è anche un breve libro di storia della musica. Con parentesi sociali e politiche. Ed è utile anche per questo: perché l’assioma dell’assoluta autenticità del pop/rock va in tandem con un utilizzo semplicemente irrazionale o umorale della musica. Sovente un comune appassionato non ha strumenti – né li ha mai cercarti – per collocare un solista o un gruppo all’interno di un genere o di una corrente artistica. Il che a nostro modo di vedere pregiudica e di molto il livello di comprensione. Il libro consta di quattro capitoli. Due per il pop internazionale, due per la musica italiana. A livello internazionale per Capozzi – la cui intensità polemica non va mai oltre una critica pacata, consapevole e argomentata – le cose sono andate grossomodo così. In America – e non solo – è possibile riconoscere tre periodi-boom della popular music. Il primo è della seconda metà degli anni Venti (musica leggera, jazz e swing con il fondamentale apporto del cinema). Il secondo è degli anni Cinquanta con la nascita del rock’n’roll e con artisti carismatici come Elvis Presley, Chuck Berry e Little Richard e il fondamentale apporto della tivù. È in questo periodo che nasce la figura del teenager che ha col cantante un rapporto immediato e del tutto nuovo. Il giovane vede nella musica un’appendice alla propria libertà, in primo luogo libertà dal bisogno grazie alla sicurezza offerta dal welfare. L’individualismo è la sua religione, la promozione sociale il suo fine principale. Il cantante è parte integrante del meccanismo capitalistico e dell’industria della comunicazione, è tutt’altro che “ribelle” e il suo compito è soddisfare le richieste della nuova classe di consumatori. Il vero e proprio pop nasce negli anni Sessanta – cioè nella terza fase – grazie anche alla diffusione della Pop art che diffonde la mania del consumo in serie. Il pop non è solo americano ma anche inglese, in primo luogo grazie ai Beatles che mescolano saggiamente e opportunamente rock, soul e folk. Man mano che il mercato si allarga i prodotti musicali si fanno sempre più semplici, universali e immediatamente riconoscibili. I cantanti diventano veri e propri eroi e cominciano ad interessare il pubblico anche per quello che fanno fuori dalle scene. Dalla seconda metà dei Sessanta c’è una prima “rottura”. Ma la questione non riguarda principalmente la popular music ma la società per intero. È la musica – la cui naturale funzione è veicolare i messaggi della contemporaneità – ad esprimere il disagio che circola per le società opulente. Se nei periodi precedenti le sette note sono state compagne ideali di una società in crescita che esporta i prodotti artistici, adesso occorre sposare le istanze ribellistiche e libertarie di chi si oppone a un sistema oppressivo e più in generale all’Occidente autoritario. Un’adesione istintiva, occasionale e tutto sommato poco convinta dato che la musica continuerà ad essere quella che è sempre stata. Bene prodotto dall’industria dell’intrattenimento e merce da poter piazzare a un pubblico ora misurato ora radicale.


Preceduta dal folk di Woody Guthrie, Joan Baez e Bob Dylan, a metà dei Sessanta s’inaugura la stagione protestataria del rock. Anche Beatles e Rolling Stones dal 1965-66 si dedicheranno alla protesta in forme psichedeliche. Ed è ancora in quel periodo che faranno il loro debutto gli ideali del comunitarismo anarcoide degli hippie. Nei grandi festival della seconda metà dei Sessanta si celebrerà il nuovo movimentismo giovanile: a Monterey e soprattutto a Woodstock. Ma si tratterà pur sempre di una parentesi. La restaurazione è lì, dietro l’angolo. Col progressive europeo, scrive Capozzi, cioè con la restaurazione in musica e la fuga dalla realtà, e poi col folk-rock e col country rock. Già alla fine dei Settanta circola l’idea di una generale sconfitta della breve parentesi controculturale. Gli artisti che hanno creduto in un mondo alternativo si leccano ferite procurate dalla “scoperta” che la musica è (arte certamente, ma) soprattutto business, immagine, industria e capitale. Qui finisce l’era del pop/rock concepito come controcultura. L’attitudine ribelle si «massifica» in una posa ribellistico-individualista in un periodo di vera e propria omologazione. Nella metà dei Settanta in coincidenza con la crisi dei paesi industrializzati si è sviluppato un nuovo genere tra le due sponde dell’Oceano: il punk-rock. È un genere di protesta fatto per lo più di sfoghi e «furia distruttrice», in netta controtendenza rispetto al movimento hippie: è pessimista con punte di autolesionismo, individualista e antiprogressista (Sex Pistols); presto diventerà new wave (Cure, Police, Talking Heads), tra contaminazioni e posizioni (ancora più) estreme. Negli stessi anni il pop nero (funk, rock e jazz) si convertiva in musica da ballo. Naturalmente quest’ultima era tutt’altro che antisistema. Nasceva la disco music con Barry White, Donna Summer e Gloria Gaynor, genere che poi si rafforzerà con la «conversione» dei Bee Gees (1977). Una musica del tutto priva di sovrastrutture politiche. Il fine dei ballerini da discoteca era quello di aspirare al benessere e di divertirsi. Ribellarsi a qualcosa di politicamente indefinibile. Tutto qua. Al confine con gli Ottanta nascerà il nuovo divo universale. Un musicista pop protagonista anche in video (Madonna e Michael Jackson), che diventerà l’emblema della ripresa economica dei primi Ottanta. Gli ultimi fuochi della musica politicizzata verranno consumati soprattutto con le cause umanitarie e i concertoni come Live Aid (1985). Questo per quanto riguarda il pop/rock. Non proprio vicino alla politica dunque, anzi “segretamente” svincolato da essa.La situazione in Italia, per Capozzi, è più o meno identica a quella descritta. Anche se trattandosi di un paese – il nostro – inzuppato di sovrastrutture, le difficoltà di orientamento saranno all’ordine del giorno. Anche (anzi: soprattutto) da noi la musica leggera è stata trattata dagli intellettuali come parte di una necessaria coscienza civica. E gli artisti giudicati in base alla loro vicinanza/lontananza dai temi sociali e politici. Una parola, insomma. In più aggiungiamo che l’Italia ha una sua tradizione musicale (e non solo) di tutto rispetto che ha quasi sempre influenzato i prodotti artistici fino ai giorni nostri. Negli anni Cinquanta proprio questa tradizione limita il diffondersi del rock’n’roll e (dopo il fenomeno Domenico Modugno) del filone cosiddetto degli urlatori. Anche in Italia naturalmente si può parlare di generi e scuole diverse e all’interno di queste di più generazioni. In un paese che ha sempre fatto vanto della propria originalità e della propria genuinità soprattutto nell’arte, tra i Cinquanta e i Sessanta compaiono i primi «imitatori» degli stili americani. Si tratta intendiamoci di artisti dal talento cristallino, neanche lontanamente paragonabili ai prodotti televisivi dei giorni nostri. Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Mina e poi Gianni Morandi e Rita Pavone. La diffusione dei nuovi stili di vita anni Sessanta provoca un vero terremoto. Capozzi distingue la tipica canzonetta (balneare) particolarmente ottimista e mai passata di moda, da un atteggiamento di vero e proprio disagio (intellettuale o intellettualizzato) per il progresso o di preoccupazione per la fine delle strutture tradizionali. Difficile trovare una sintesi. O forse no.
Il più «influente» esponente del (primo) rock’n’roll italiano è proprio il Molleggiato che è un capitolo a parte nella storia della musica italiana e un po’ anche del costume. Da uomo che proviene da una famiglia del sud esprime sentimenti vitalistici, è maschilista e sentimentalista a modo suo; è un tipo sospeso tra antico e moderno, vota contro la tradizione ma non la condanna in toto, anzi. Anche i primi complessi beat italiani (The Rokes) esprimono un generico ribellismo in salsa familiare o un «pacifismo didascalico», ma i loro turbamenti sono tutt’altro che movimentisti o ad alto grado di politicizzazione se si eccettuano i temi diffusi da Francesco Guccini e cantati dai Nomadi e dall’Equipe 84. Insomma l’Italietta si muove con cautela.Qualche problema di troppo invece si affaccia con la prima generazione di cantautori, la «scuola genovese» di Fabrizio De André, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Umberto Bindi e Sergio Endrigo (che non era genovese). Su di loro, scrive Capozzi e non ha affatto torto, è stata costruita «a posteriori» una mitologia ribellistica esasperata. Insomma più che ribelli da un punto di vista politico i cantautori lo erano da un punto di vista esistenziale, peraltro in perfetta armonia con le mode intellettuali del tempo. Si possono sistemare Tenco ed Endrigo sul lato sinistro e De André e Piero Ciampi nel girone degli anarchici, d’accordo. Ma c’è un legame così forte con la tradizione italiana che è difficile collocare loro e altri colleghi al di fuori di un ambiente avulso da seduzioni movimentiste d’oltreoceano. In Italia il periodo di maggiore incidenza dell’ideologia nella musica non si colloca tuttavia alla fine dei Sessanta, ma nella prima metà dei Settanta; poi beat italiano e rock controculturale si trasformeranno nel progressive nazionale e nei nuovi cantautori. Solo in un caso, scrive Capozzi, pop/rock e canzone militante si fondono quasi perfettamente: a Milano grazie alle case discografiche indipendenti, con gli Stormy Six (antifascisti), gli Area di Demetrio Stratos, e poi con Eugenio Finardi, Alberto Camerini, Ricky Gianco, Claudio Lolli e Jannacci. Artisti che però erano in maggioranza libertari, anarchici o portatori di un’ideologia vitalista. Non privi di ironia come Gianfranco Manfredi e Ricky Gianco, che descriveranno l’happening proletario di Parco Lambro (1976) e il panorama pre-settantasettino nel segno della decadenza della controcultura italiana. Ma, attenzione. Si sa ma occorre dirlo. Le ideologie nel Belpaese non furono solo progressiste ma soprattutto «neotradizionaliste», conservatrici e antimoderne in senso moralista. E naturalmente precedettero e di molto l’incontro tra musica e politica. Qui occorre riprendere il discorso su Celentano, vera e propria miniera. Nel 1966 esce Il ragazzo della via Gluck (sul cui contenuto credo non ci sia nulla da dire), l’anno successivo dopo essersela presa coi beat il Molleggiato se la prenderà col divorzio, nel ’70 con le lotte operaie e così via. Anche Paolo Conte che sarà suo paroliere (Azzurro, 1968) svilupperà temi relativi al rapporto tra società tradizionale e industriale contrapponendo la metropoli alla provincia, Gaber ed Endrigo invece tratteranno temi ecologisti in netto anticipo sui tempi. Giulio Rapetti (cioè Mogol), non sarà da meno. Capozzi lo giudica un «neotradizionalista» insieme all’alter ego Lucio Battisti. Finirà per essere giudicato fascista (in quanto non-ideologizzato a senso unico) per aver sposato la causa del ruralismo e averla contrapposta alle ideologie radical chic e a quelle della sinistra post-sessantottina.


Dalla fine dei Sessanta il pop italiano saprà ribellarsi anche alla liberazione sessuale in nome del più classico maschilismo con Mogol e Battisti (Acqua azzurra acqua chiara, La canzone del sole, Una donna per amico e Una giornata uggiosa). Poi si ribellerà anche al femminismo con gli insospettabili Pooh e con Giancarlo Bigazzi e Umberto Tozzi (Ti amo, 1977). Insomma l’Italia è rimasta nella stragrande maggioranza «sentimental-tradizionalista», e non è certo una gran sorpresa. Chiudiamo coi cantautori. De Gregori, Guccini, Dalla e gli altri cosiddetti impegnati. Gli invincibili difensori della (bella) politica. Almeno così pare. Capozzi è chiaro: essi non sono «organicamente» inseriti all’interno dei movimenti della sinistra post-sessantottina. Il tema principe delle loro canzoni è lo smarrimento interiore. Né più e né meno come i loro colleghi di prima generazione. Vengono considerati maître à penser, intellettuali sofisticati e si legano ai movimenti nella misura in cui i loro sentimenti non puzzano di borghesia. Insomma il matrimonio tra cantautori e movimento giovanile si gioca non sulla sostanza di un pensiero o su proposte chiare, ma su un numero pressoché infinito di piccole affinità o sfumature. Non è odio naturalmente, ma nemmeno grande amore. È il caso tipico del più dylaniano dei nostri artisti, cioè Francesco De Gregori, ma anche di Antonello Venditti. I due cominceranno in coppia nel 1972 e andranno avanti (separatamente) tra frecciatine ermetiche, drammi personali, citazioni dotte, nostalgismi e sentenze. Roberto Vecchioni, sanremizzatosi un paio d’anni fa, è sempre stato l’artista preferito di chi abbina impegno e cultura. Anche Claudio Lolli mescolerà disagio personale e ribellione rivoluzionaria (Ho visto anche degli zingari felici, 1976). Veri e propri anticonformisti saranno Edoardo Bennato che userà il rock’n’roll come scelta per il suo «anarchismo emotivo» anti-autoritario e anti-ideologico; Rino Gaetano che alternerà provocazioni apparentemente senza ambizioni a cause pro-emarginati. E infine Franco Battiato, predicatore «moralistico-aristocratico». Antipolitico per forma e… sostanza. Il discorso è un po’ diverso per Guccini e Lucio Dalla. Ma il loro interesse per la politica è racchiuso all’interno di un approccio interiore lontano dal pop/rock movimentista milanese. Guccini critica la massificazione cantando la civiltà contadina come luogo autentico (Radici, 1972). Il suo è un socialismo anarchicheggiante, pessimista e perfino d’ispirazione ottocentesca (La locomotiva). Dalla è anch’esso anticonformista peraltro cattolico, e rifiuta il progresso nel periodo di collaborazione col pasoliniano Roberto Roversi, poeta attratto dagli emarginati e ossessionato per la fine dell’Italia rurale. Nel 1976, aggiunge Capozzi concludendo un volume costruito su tesi interessanti e come abbiamo visto pieno di informazioni, si consumerà la definitiva rottura tra i cantautori e la politica come esaltazione dell’ideologia. A Milano (2 aprile) i contestatori di estrema sinistra disturberanno un concerto di De Gregori che verrà anche “processato” sul palco. È il picco di una tensione consumatasi nel periodo 1975-78. Un periodo, compreso il successivo, di scelte fondamentali per i cantautori: diventare strumento della contestazione che si avvia verso fasi nuove (e distruttive) o ribadire la loro indipendenza? Il risultato sarebbe stato fino alla fine del decennio un accentuato pessimismo e la percezione di un nuovo isolamento. Come condimento: la nostalgia o la finta nostalgia per le tante occasioni perdute. Scarso tuttavia sarebbe stato lo spazio per i ripensamenti. Gli album di De Gregori, “De Gregori” (1978), di Guccini, “Via Paolo Fabbri 43” (1977) e “Amerigo” (1978), e di Dalla “Come è profondo il mare” e “Lucio Dalla” (1979) saranno lì a testimoniarlo. Iniziava la fase del “riflusso”. Qualcuno l’avrebbe chiamata pure fine delle passioni, con molto coraggio e una particolare idea delle passioni.


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