Annalisa Terranova
Si chiama Alain Finkielkraut e
rischia, qui da noi, di diventare il paladino più popolare dell’anti-politicamente
corretto. Se è per questo rischia pure di essere guardato come intellettuale di
riferimento della destra francese di Marine Le Pen. Il che non è un buon
viatico visto che questo intellettuale, ebreo, è un pentito della “gauche”. Ora
è uscito un suo libro “L’identità infelice” che in Francia scala le
classifiche. Ne ha parlato giorni fa il Corriere,
osservando che potrebbe anche essere una sorta di manifesto del lepenismo. E
questo perché Finkielkraut si interroga sull’essere francesi nell’epoca dell’assimilazionismo,
ultimo stadio di un multiculturalismo che porta la Francia a guardare con indifferenza
all’individuo francese, eterosessuale, cattolico. Un individuo “superfluo” cui
appunto non resterebbe altro che l’identità infelice. Raggiunto dal Foglio, testata così attenta a ciò che
si sperimenta Oltralpe, Finkielkraut spiega: “Sotto il principio della non
discriminazione, la Francia sprofonda voluttuosamente nell’indifferenziato. In
un’uguaglianza totale. L’identità non è un determinismo. Ma la diversità è
idilliaca soltanto nei supermercati” (l’articolo, a firma di Giulio Meotti, è
uscito sabato 19 ottobre). Pone problemi, insomma, non ricette. Problemi dai
quali, si presume, si esce con una riflessione collettiva e non chiudendo,
vietando, censurando, cacciando. Perché se c’è un’altra cosa che non va giù al
teorico delle identità infelici è che l’estrema destra si sia arrogata il
diritto di parlare a nome di chi sente con maggiore profondità il tema. In
Francia, ovvio, perché in Italia siamo ai balbettii contro la Kyenge, ai
manichini insanguinati, alla bandiera dello ius sanguinis in un paese diventato
nazione (e non proprio in modo limpidissimo) solo alla fine dell’Ottocento. Finkielkraut
non ci tiene ad essere il teorico del Front National: “Sono infrequentabili”,
puntualizza. La sua autorevolezza, dunque, è data dall’essere un pentito del
pensiero unico della sinistra. Ma c’è infine un’altra cosa molto interessante
che Finkielkraut dice al Foglio: “Il
confine tra politicamente corretto e politicamente abietto è molto sottile”.
Verissimo. E’ politicamente corretto, per esempio, indignarsi se si fa di Erich
Priebke un simbolo. E’ politicamente abietto invece dire, come ha fatto Nicola Zingaretti,
che sputare sulla sua salma è una bella pagina di cittadinanza attiva. Ma attenzione
ad abbracciare con ardore tutto ciò che sa di politicamente scorretto, a farne
il paravento sotto il quale riparare ogni insulto, ogni trasgressione verbale,
ogni vocabolo della lingua neocinica. Anche passare dal politicamente scorretto
al politicamente abietto è molto facile. Sul punto c’è un esempio ancora
fresco: la puntata sperimentale di Radio Belva, con il suo cattiverio trash. L’infelicità,
infatti, non proviene solo dalla mancanza di identità ma anche, ahinoi, dalla
mancanza di civiltà.
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