Luciano
Lanna
sabato 5 ottobre 2013
Attenti al gorilla! Riascoltiamo e rileggiamo Georges Brassens
Ne scrivo per
smantellare ancora una volta i soliti stereotipi sulle due culture, quella
cosiddetta alta e quella bassa, e spiegare che il “cantautore” Brassens può e
deve essere considerato uno degli autori che insieme a Camus, Orwell o Simone
Weil, va oggi inserito nel pantheon di chi oggi intravede e intende declinare
una nuova grammatica della libertà, esistenziale e personale ancor prima che
politica. Se nell’ottobre del
’53 c’era stato il suo trionfo dal palco dell’Olympia, cinquant’anni fa esatti,
nell’ottobre 1963, il nome di Brassens entrava già nei piani alti della cultura
con un suo libro pubblicato nella collana poetica dell’editore Seghers, quella
che era inaugurata dal surrealista Paul
Eluard e in cui Brassens si troverà in compagnia di Victor Hugo, Verlaine e
Aragon, tutti d’altronde da lui musicati.
Era nato a il
22 ottobre 1921 a Séte, in Linguadoca, morirà il 29 ottobre del 1981 nel
paesino di Gély-du-Fesc, vicino a Montpellier. E per tutta la sua vita Brassens
fu un libertario senza se e senza ma, refrattario all’incasellamento in
qualsiasi ideologia, da lui considerata in quanto tale la causa principale
della tragedia delle vittime nella storia. Se nella sua canzone Le deux oncles prendeva le distanze sia
dai vincitori che dai vinti della seconda guerra mondiale, in La tondue arrivava coraggiosamente a
criticare la ferocia nelle epurazioni. La ballata era infatti la storia di una
ragazza accusata di collaborazionismo con i tedeschi e punita con il taglio dei
capelli.
«Io non sono poeta, o forse solo
un pochino: mescolo parole e musica e poi canto», diceva di se stesso Brassens.
Si può infatti sostenere che quest’uomo massiccio e baffuto ha come pochi
intrigato la Francia degli intellettuali insieme a quella popolare con le sue
storie di marginali, puttane, ladruncoli, ex galeotti, disoccupati, immigrati,
tipi che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. E di contro i
suoi obiettivi polemici non potevano che i benpensanti, la triade
giudici-poliziotti-clericali. Si vantava di non essere mai entrato dentro una banca
e diceva di essere così libertario da attraversare scrupolosamente sulle
strisce pedonali, pur di non dover avere a che fare con i gendarmi.
Dalla lettura del libro emerge in
tutta evidenza il suo retroterra culturale, si scoprono quali sono stati gli
autori che hanno inciso sulla sua formazione: su tutti Villon,
Baudelaire, La Fontaine, La Rochefocauld, Mallarmé, Céline e Rabelais. Un mix culturale che nella Francia
degli anni ’50 e ’60 appariva un po’ urticante. Va ricordato che, come accadrà
più avanti in Italia per De André e Guccini, più della metà delle sue canzoni erano censurate sulle radio e
televisioni e che solo qualcuna poteva andare in onda, ma solo dopo la
mezzanotte.
De André, che come abbiamo visto
indicava Brassens come suo maestro non volle però mai incontrarlo per timore di
andare a sbattere contro un carattere burbero o scostante. Eppure Elvira,
la madre di Georges, era d’origine italiana, di Marsico Nuovo, in Lucania.
Vedova di guerra, con una figlia, Simone, si era risposata con Jean-Louis
Brassens, muratore, e il 22 ottobre del ’21 era nato Georges: «Sono cresciuto
in mezzo alla musica. Cantava mia madre, canzoni napoletane, e di quelle francesi
trascriveva i testi e li imparava a memoria. Cantava mio padre, sul lavoro. A
cinque anni sapevo già 250 canzoni».
La svolta musicale va però datata
al 1952. È Patachou, cantante e proprietaria di un famoso cabaret parigino, a
imporlo nel mondo della canzone, dove Brassens si presenta a trentun anni.
Molti trovano troppo semplice, a base di soli tre accordi, la sua musica. E
l’accompagnamento a base di una sola chitarra. Ma sui testi nessuno mette in
dubbio la sua maestria: abilità nella metrica, sapiente alternanza di cultura
classica e parolaccia da strada. All’inizio degli anni ’80 Garcia Marquez lo
definirà «il più grande poeta francese vivente». Che il suo
pensiero fosse anticipatore lo dimostra per tutte questa sua frase:
«L’informazione è cresciuta più velocemente della cultura, in questo senso la
propaganda ha più chance di prima. Viviamo purtroppo in epoca di slogan…».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
E' sempre un piacere leggerti.
RispondiEliminaEnzo