Annalisa Terranova
Nel 1953 (direttori Almirante-Anfuso) il Secolo diviene il
giornale-bandiera dei nazionalisti che si oppongono alla zona B di Trieste.
Eventi minuziosamente raccontati dal Secolo: fu il battesimo della piazza
“tricolore”, movimentista e ribelle; la grande piazza di destra, ancorata al
mito dell’irredentismo, cui poi nell’immaginario popolare seguirà la piazza
operaista e anticapitalista di sinistra che dominerà la scena negli anni
Settanta. Ma nel 1953, quando le ragazze di Trieste “cantan tutte con ardore o
Italia o Italia del mio cuore”, saranno i missini a dominare la scena, seguiti
dal Secolo che ne diviene la voce, il megafono, il guanto di sfida verso gli
inglesi e gli jugoslavi.
A marzo, dopo un comizio di De Marsanich, una bomba
ferisce gravemente Fabio De Felice e Cesare Pozzo e altri 17 ragazzi. I due
giovani verranno poi portati in Parlamento anche se hanno ancora meno di
trent’anni. Il 4 novembre del 1953 studenti ed ex combattenti, insieme ai triestini,
si radunano in piazza dell’Unità d’Italia per issare sul municipio il tricolore
tolto dagli inglesi. Seguiranno violente cariche, con il ferimento di 15
persone e 17 arresti. Il giorno dopo la polizia alleata fa fuoco sulla folla
che assiste alla messa riparatrice davanti alla chiesa di Sant’Antonio
Taumaturgo provocando i primi morti della gioventù nazionale: Antonio Zavadil e
Piero Addobbati. Il giorno seguente ancora 4 vittime: il dirigente del Fuan
Francesco Paglia, Erminio Bassa, Saverio Montano e Leonardo Manzi. Gli
attivisti missini sono guidati da Franco Petronio: avevano composto, come
racconta Giulio Caradonna nelle sue Memorie, la “compagnia della teppa”, dal
nome dell’associazione patriottica che aveva dato il via alle Cinque Giornate di
Milano del 1848. Franco Petronio in seguitò sarà un valido giornalista del
Secolo e Cesare Pozzo, capo-ufficio stampa di Almirante, sarà negli anni
Settanta direttore politico del quotidiano.
Dopo che io entrai al Secolo, nel 1990, non c’erano epiche
giornate da raccontare. Ma il sogno mio e degli altri giovani praticanti
assunti in quel periodo (Luciano Lanna, Mario Landolfi, Camillo Scoyni) era
“rivoluzionare” la logica del quotidiano di partito. Ne discutevamo alla pausa
pranzo al bar Moroni, in via della Mercede dove ci eravamo trasferiti lasciando
la sede da via Milano, mangiando indigeste pennette al pesto di funghi:
sbuffavamo quando nei nostri “pastoni” dovevamo inserire la dichiarazione di un
esponente del Msi che, secondo noi, ci rovinava la nostra prosa brillante con
le sue “trombonate”. Lanna sosteneva che “bisognava attaccare il ciuccio dove
vuole il padrone ma con stile…”. Landolfi pensava di risolvere l’impasse con
brillanti corsivi in prima pagina ed evitare i dirigenti come la peste (chissà
che ne pensa oggi…). Scoyni riteneva che dovessimo copiare il modello di
Repubblica. Io dicevo: andiamoci a parlare con questi del partito, spieghiamo
loro che così il giornale non si vende, che non possiamo solo passare le loro
veline. Ma loro guardavano proprio quelle, gli annunci, gli appuntamenti, le
feste tricolori. Gasparri si lamentò con Rauti che i suoi eventi erano
penalizzati. Dunque noi, che curavamo quella rubrica nella pagina chiamata
Movimento, glieli inserimmo tutti (effettivamente li avevamo censurati, ma non
per ordine di Rauti, per conto nostro). Allora si arrabbiò Alemanno, che
telefonò per protestare che Gasparri aveva più spazio di lui. Io gli risposi
male. Lui fece una scena alla “lei non sa chi sono io”. Io lo mandai a quel
paese. In nome dell’"autonomia della redazione". Lui mandò il giorno dopo
dei fiori, come gesto riparatorio: io li gettai nello scatolone a fianco alla
scrivania di Palmesano, dove finivano i lanci di agenzia inutilizzati dai
redattori. Fu un gesto di ribellione politica. All’epoca ero giovane. In realtà
avrei dovuto buttarli per una questione tutta femminile, perché, invece che
mandare rose, inviò un semplice mazzo di margherite di campo.
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