Luciano Lanna
Mentre la cronaca di questi giorni è tutta presa dalla vicenda della
salma – fenomeno che stando all’antropologia e alla storiografia è inevitabilmente
connaturato a tutti i personaggi diventati icone, da Mussolini al Che, da Elvis
a Disney – di Lucio Battisti si deve tornare a parlare perché il cantautore
reatino scompariva proprio quindici anni fa, il 9 settembre 1998. E a distanza
di tre lustri si continua a discettarne quasi sempre scivolando fuori tema o
equivocando… Quando basterebbe spiegare quanto ha recentemente scritto Renzo
Arbore: “Non è ancora stato detto – ha sottolineato – ma Lucio Battisti fece
una vera e propria rivoluzione. Non si ispirò, come qualcuno pensa, alla musica
americana e inglese dei suoi tempi, ma cambiò il modo di scrivere le canzoni in
Italia, rivoluzionando anche diversi giri armonici tra quelli sempre laureati,
inventando altre combinazioni sonore e un altro modo di incasellare il tutto
insieme a Mogol. E tutti noi abbiamo goduto di quella splendida generazione
frettolosamente da me personalmente allora chiamata beat…”.
Sta infatti tutta lì la questione, sta in questo passaggio la
rivoluzione avviata da Battisti che in qualche modo è paragonabile solo al
precedente di Domenico Modugno, il quale introdusse seriamente lo swing nella musica pop italiana.
Battisti andò oltre, fece in Italia quello che avevano fatto i Beatles nel
mondo anglosassone. “Un ricciolone timido e scontroso – ha scritto il suo
collega più giovane Max Pezzali – ha cambiato per sempre la storia della
canzone. L’ha fatto con un mix di soul, funk, rock e melodia per quanto
riguarda la musica, e con l’immortalità delle liriche di Mogol per quanto
concerne le parole. Fregandosene dell’opinione comune in quel periodo, secondo
cui una canzone avrebbe dovuto necessariamente avere argomenti di protesta
contro il potere costituito per poter assurgere a una dignità artistica”. Lo
attestano nel migliore dei modi le parole dello stesso Battisti. “Ma che
impegnato! Io sono di-sim-pe-gnato, disi-tutto, tranquillo…”, affermava il
cantautore nel 1970 nel corso della trasmissione televisiva di Renzo Arbore Speciale per voi. In quella sede un ragazzo
chiedeva infatti a Battisti con quale spirito si ponesse di fronte alla società
e ai problemi del tempo. E il musicista, quasi sorpreso dalla seriosità
trombonesca del giovane, mostrava quasi di non capire, limitandosi a sorridere
e a dichiararla sua “tranquillità”. E in effetti le canzoni e le melodie di
Battisti sono effettivamente stati uno di quei fenomeni della storia del
costume e dell’immaginario che nell’Italia del secondo dopoguerra hanno
scavalcato divisioni e segmentazioni ideologiche e d’appartenenza sociologica
riuscendo a incarnare il normale sentimento della maggioranza della società
italiana. Una maggioranza normale e “tranquilla” che è stata sempre tale
ogniqualvolta non si è fatto imprigionare – anche temporaneamente e a correnti
alternate – dalle narrazioni ufficiali come dalle mascherature di circostanza e
dai riflessi condizionati imposti dalla logica della politica e dell’ideologia.
Lo spieghiamo ancora con l’interpretazione
di Max Pezzali: “Fregandosene di tutto, Battisti andò avanti imperterrito per
la propria strada, raccontando come nessun altro i sentimenti e le emozioni in
modo mai banale o sdolcinato e scavando in profondità nell’animo umano come
pochi, facendo cantare, suonare, ridere e piangere intere generazioni,
incurante dell’etichetta di ‘cantautore sentimentale’ affibbiatagli sbrigativamente
da critici distratti…”.
È un fatto che anche una
scrittrice all’epoca iper-ideologizzata e femminista, come la coautrice di Porci con le ali Lidia Ravera, sarà
costretta ad ammettere: “Era l’unico elemento di trasgressione alle indicazioni
della sinistra extraparlamentare. Ero ligia su tutto, ma non su Battisti….”. E,
in effetti, come preciserà anche l’editore e intellettuale alternativo Marcello
Baraghini, “le canzoni di Lucio Battisti rappresentavano la trasgressione alla
cultura musicale della sinistra rivoluzionaria: trucida, violenta, truculenta…”.
Di più: lo straordinario successo della musica battistiana tra la fine degli
anni Sessanta e la metà degli Ottanta è uno degli esempi migliori della
evidente cesura tra la realtà diffusa dell’Italia normale e maggioritaria (anche
tra i giovani) e le minoranze (che tali erano, per quanto rumorose e violente)
incupite e chiuse nel proprio orizzonte ideologico. “Mentre quasi tutti i
ragazzi, qualsiasi fosse la loro appartenenza sociologica, familiare o anche di
riferimento politico, impazzivano per lui e passavano giornate intere a
ripetere i versi di Mi ritorni in mente,
a strimpellare sulla chitarra gli accordi di Emozioni, La collina dei
ciliegi, La canzone del sole o Il mio canto libero, a bearsi di quella ‘normale’
voce afona, ci fu chi – sottolinea Gianni Borgna, critico e storico della
musica leggera italiana – non esitò a stroncarlo e a tacciare i suoi brani di
qualunquismo. Quando infatti uscirono i suoi primi dischi, destinati a imporsi
e a diventare culto per tutti i giovani, più di un critico progressista alzò il
sopracciglio…”.
In piena sintonia con la
maggioranza dei giovani normali di quel periodo si poneva invece la musica di Battisti,
così come si poneva lui stesso, il ragazzo che veniva da Poggio Bustone e che
andò a Roma e a Milano per fare musica. In piena sintonia con la stragrande
maggioranza di quei ragazzi che in quanto tali non erano né di destra, né di
centro, né di sinistra, ma giovani che stavano attraversando un periodo di
cambiamento e di ricerca di libertà. Tanto è vero che ripensare al
fenomeno-Battisti dovrebbe spingere anche a rileggere la storia degli ultimi
decenni liberandosi dalle ricostruzioni fatte attraverso le lenti degli
ambienti estremi e, comunque, minoritari, anche quando questi hanno
egemonizzato la narrazione pubblica. Battisti, d’altronde, non si è mai
definito e quando qualcuno lo sottopose a un processo “politico” per via di
alcuni testi ritenuti maschilisti e conservatori lui si limitò a sorridere e a
ironizzare… D’altronde, se lui e la sua musica non andavano giù all’estrema
sinistra un qualcosa di analogo accadeva – al di là di ricostruzioni postume e
strumentalizzazioni para-situazioniste della metà dei Settanta – anche con l’altro
versante, almeno guardando all’estetica e all’aderenza di Battisti al fenomeno beat. Ce
lo racconta nel suo bel libro Io e Lucio
Battisti (Salani, pp. 254, euro 13,90, Pietruccio Montalbetti, chitarra
leader dei Dik Dik oltre che amico vero e di antica data di Lucio Battisti. I
due vivevano e lavoravano a Milano alla fine dei Sessanta e – basta guardare le
foto dell’epoca – si vestivano come due beat, capelli lunghi, camicie a fiori,
foulard particolari… La Ricordi non distava però molto da San Babila e più di
una volta Lucio e Pietruccio – oltretutto figli di due reduci dalla guerra e
dalla prigionia, per niente affascinati da mitologie marxiste-lenististe –
furono oggetto di insulti da parte dei sanbabilini, gli estremisti di destra
che frequentavano la piazza. “Andatevene via, brutti comunisti, tagliatevi i
capelli”, gli urlarono più di una volta. Una sera in cui i due girovagavano da
quelle parti decisero di fermarsi in un bar nei pressi della Statale: “Pioveva
così forte e faceva così freddo – racconta Montalbetti – che desideravamo solo
bere qualcosa di caldo. Il locale era affollato, alcuni giocavano a carte e
altri stavano assistendo a un programma televisivo. Ci accomodammo al tavolo
che stava al centro del bar e ordinammo una cioccolata calda. Alcuni minuti
dopo si avvicinarono dei ragazzi e dall’abbigliamento, vestiti bene, capelli
corti, si capiva che erano sanbabilini. Avevano più o meno la nostra stessa età
e uno di loro, senza chiederci il permesso, si accomodò al nostro tavolo,
mentre gli altri del gruppo rimasero in piedi con aria minacciosa. Il ragazzo
seduto ci disse: ‘Ma che ci fate voi in questo bar? Lo sapete che voi comunisti
dovete andare via?’. Sia io che Lucio eravamo tesi e impauriti. Poi, il
ragazzo, spingendo il tavolo verso di noi, iniziò a insultarci e a dirci di
uscire fuori se ne avevamo il coraggio…’. Per fortuna alcuni adulti che stavano
giocando a carte se ne accorsero. Da come erano vestiti e dalle corporature
robuste si capiva che erano persone che svolgevano lavori manuali…”. Alla fine
il più massiccio di quei signori, senza neanche dire una parola, si avvicinò al
sanbabilino seduto e gli mollò un ceffone facendolo ribaltare dalla sedia.
Subito il restò del gruppo, intese l’antifona e se la diede a gambe… E pensare
che Battisti ma anche i Dik Dik avevano già inciso da due-tre anni i loro primi
successi. Ma la stupida logica dei codici estetici definiti li fece apparire a
quegli estremisti di destra come fossero dei beat comunisti… Allo stesso modo
in cui la loro musica non doveva piacere ai custodi dell’ortodossia marxista-leninista.
La lezione per l’oggi? Quella che oltre quarant’anni dopo quel clima, liberi ormai quasi tutti da quei riflessi condizionati, l’Italia recuperi finalmente tutto intero il proprio
immaginario unificante il quale, nel profondo e in presa diretta, fu in realtà più condiviso di
quanto si possa immaginare.
Voglio altresì ricordare che, vivendo quasi in simbiosi Lucio e Giulio, molti dei testi scritti erano frutto dei sentimenti, delle emozioni, delle esperienze, dei pensieri di Battisti stesso, che Mogol sapeva con arte tramutare in liriche poetiche.
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