Marco Iacona
La musica non è solo insieme di note, pause e intervalli. Forse
è così da sempre, sicuramente lo è da sessant’anni. Più o meno dalla nascita
della musica popolare o popular music o pop. Come fenomeno di massa la musica
trasmette più di quello che un delizioso passaggio orchestrale sia in grado di
offrire, forse perfino più di una strofa ben inserita o di un motivo ripetuto
con insistenza. Ed è ovvio che l’esplorazione del significato per così dire
autentico di un brano pop sconti l’obbligo della forzatura, dovuta alla
sensibilità politica di questo o quel critico: sensibilità o insensibilità,
naturalmente. Il libro di Eugenio Capozzi professore di storia contemporanea
all’università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli – Innocenti evasioni. Uso e
abuso politico della musica pop: 1954-1980 (Rubbettino, 2013) – ci parla di
tutto questo da un’ottica per così dire “moderata”. La tesi del libro è
semplice e continuamente sottoposta a verifica grazie a una serie di prove e
alla trascrizione dei testi delle canzoni. C’è un grave luogo comune, dice
l’autore, che pesa sulla musica giovanile sia essa straniera che a maggior
ragione italiana. Si dice infatti che questa sia stata espressione di
ribellione politica da parte delle nuove generazioni e che il pop/rock – generalmente
inteso – sia sovversivo e portatore di una propria autenticità negatrice del
mercato. A casa nostra invece si è sempre detto e scritto che la musica
italiana negli anni caldi Sessanta-Settanta sia andata a braccetto con la
politica inaugurando il particolare genere della cosiddetta canzone impegnata.
Per Capozzi sia l’una che l’altra “certezza” costituiscono un falso, anzi sono
delle vere e proprie truffe ideologiche, costruite a tavolino per ragioni
politiche da una generazione (quella sessantottina, nelle componenti più
estreme) che ha cercato di «nobilitare» una parentesi della propria vita come
avrebbe fatto qualsiasi reduce elaborando e rielaborando le proprie memorie.La popular music invece, per Capozzi, è strettamente connessa
all’industria del divertimento, della comunicazione e dell’intrattenimento,
fatta proprio per quella parte di mondo che da più di mezzo secolo ha raggiunto
un buon livello di benessere. Ed è anche per questo un contenitore aperto a
qualsiasi idea o passione, non esclusa naturalmente anche la volontà di
ribellione. Insomma il pop volta a volta è politico e impolitico,
tradizionalista e progressista, vuol integrare e discriminare ed è moderato e
ribelle a seconda degli autori e a seconda dei tempi. Valga per il rock – che è
una parentesi ribellistica del pop ma è solo uno stile nell’universo musicale –
valga per la canzone italiana nella quale progressismo e «passatismo» si
intrecciano in continuazione anche all’interno della produzione di uno stesso
artista. Il pop è una grande macchina che produce emozioni e lo si voglia o no
è parte integrante dell’occidente moderno. Possiede propri simboli, miti e
naturalmente riti del tutto particolari. Ma il saggio di Capozzi è anche un
breve libro di storia della musica. Con parentesi sociali e politiche. Ed è
utile anche per questo: perché l’assioma dell’assoluta autenticità del pop/rock
va in tandem con un utilizzo semplicemente irrazionale o umorale della musica.
Sovente un comune appassionato non ha strumenti – né li ha mai cercarti – per
collocare un solista o un gruppo all’interno di un genere o di una corrente
artistica. Il che a nostro modo di vedere pregiudica e di molto il livello di
comprensione. Il libro consta di quattro capitoli. Due per il pop
internazionale, due per la musica italiana. A livello internazionale per
Capozzi – la cui intensità polemica non va mai oltre una critica pacata,
consapevole e argomentata – le cose sono andate grossomodo così. In America – e
non solo – è possibile riconoscere tre periodi-boom della popular music. Il
primo è della seconda metà degli anni Venti (musica leggera, jazz e swing con
il fondamentale apporto del cinema). Il secondo è degli anni Cinquanta con la
nascita del rock’n’roll e con artisti
carismatici come Elvis Presley, Chuck Berry e Little Richard e il fondamentale
apporto della tivù. È in questo periodo che nasce la figura del teenager che ha
col cantante un rapporto immediato e del tutto nuovo. Il giovane vede nella
musica un’appendice alla propria libertà, in primo luogo libertà dal bisogno
grazie alla sicurezza offerta dal welfare. L’individualismo è la sua religione,
la promozione sociale il suo fine principale. Il cantante è parte integrante
del meccanismo capitalistico e dell’industria della comunicazione, è tutt’altro
che “ribelle” e il suo compito è soddisfare le richieste della nuova classe di
consumatori. Il vero e proprio pop nasce negli anni Sessanta – cioè nella terza
fase – grazie anche alla diffusione della Pop art che diffonde la mania del
consumo in serie. Il pop non è solo americano ma anche inglese, in primo luogo
grazie ai Beatles che mescolano saggiamente e opportunamente rock, soul e folk.
Man mano che il mercato si allarga i prodotti musicali si fanno sempre più
semplici, universali e immediatamente riconoscibili. I cantanti diventano veri
e propri eroi e cominciano ad interessare il pubblico anche per quello che
fanno fuori dalle scene. Dalla seconda metà dei Sessanta c’è una prima
“rottura”. Ma la questione non riguarda principalmente la popular music ma la
società per intero. È la musica – la cui naturale funzione è veicolare i
messaggi della contemporaneità – ad esprimere il disagio che circola per le
società opulente. Se nei periodi precedenti le sette note sono state compagne
ideali di una società in crescita che esporta i prodotti artistici, adesso
occorre sposare le istanze ribellistiche e libertarie di chi si oppone a un
sistema oppressivo e più in generale all’Occidente autoritario. Un’adesione
istintiva, occasionale e tutto sommato poco convinta dato che la musica
continuerà ad essere quella che è sempre stata. Bene prodotto dall’industria
dell’intrattenimento e merce da poter piazzare a un pubblico ora misurato ora
radicale.
Preceduta dal folk di Woody Guthrie, Joan Baez e Bob Dylan, a
metà dei Sessanta s’inaugura la stagione protestataria del rock. Anche Beatles
e Rolling Stones dal 1965-66 si dedicheranno alla protesta in forme
psichedeliche. Ed è ancora in quel periodo che faranno il loro debutto gli
ideali del comunitarismo anarcoide degli hippie. Nei grandi festival della
seconda metà dei Sessanta si celebrerà il nuovo movimentismo giovanile: a
Monterey e soprattutto a Woodstock. Ma si tratterà pur sempre di una parentesi.
La restaurazione è lì, dietro l’angolo. Col progressive europeo, scrive
Capozzi, cioè con la restaurazione in musica e la fuga dalla realtà, e poi col
folk-rock e col country rock. Già alla fine dei Settanta circola l’idea di una
generale sconfitta della breve parentesi controculturale. Gli artisti che hanno
creduto in un mondo alternativo si leccano ferite procurate dalla “scoperta”
che la musica è (arte certamente, ma) soprattutto business, immagine, industria
e capitale. Qui finisce l’era del pop/rock concepito come controcultura.
L’attitudine ribelle si «massifica» in una posa ribellistico-individualista in
un periodo di vera e propria omologazione. Nella metà dei Settanta in
coincidenza con la crisi dei paesi industrializzati si è sviluppato un nuovo
genere tra le due sponde dell’Oceano: il punk-rock. È un genere di protesta
fatto per lo più di sfoghi e «furia distruttrice», in netta controtendenza
rispetto al movimento hippie: è pessimista con punte di autolesionismo,
individualista e antiprogressista (Sex Pistols); presto diventerà new wave
(Cure, Police, Talking Heads), tra contaminazioni e posizioni (ancora più)
estreme. Negli stessi anni il pop nero (funk, rock e jazz) si convertiva in
musica da ballo. Naturalmente quest’ultima era tutt’altro che antisistema.
Nasceva la disco music con Barry White, Donna Summer e Gloria Gaynor, genere
che poi si rafforzerà con la «conversione» dei Bee Gees (1977). Una musica del
tutto priva di sovrastrutture politiche. Il fine dei ballerini da discoteca era
quello di aspirare al benessere e di divertirsi. Ribellarsi a qualcosa di
politicamente indefinibile. Tutto qua. Al confine con gli Ottanta nascerà il
nuovo divo universale. Un musicista pop protagonista anche in video (Madonna e
Michael Jackson), che diventerà l’emblema della ripresa economica dei primi
Ottanta. Gli ultimi fuochi della musica politicizzata verranno consumati
soprattutto con le cause umanitarie e i concertoni come Live Aid (1985). Questo
per quanto riguarda il pop/rock. Non proprio vicino alla politica dunque, anzi
“segretamente” svincolato da essa.La situazione in Italia, per Capozzi, è più o meno identica a
quella descritta. Anche se trattandosi di un paese – il nostro – inzuppato di
sovrastrutture, le difficoltà di orientamento saranno all’ordine del giorno.
Anche (anzi: soprattutto) da noi la musica leggera è stata trattata dagli
intellettuali come parte di una necessaria coscienza civica. E gli artisti
giudicati in base alla loro vicinanza/lontananza dai temi sociali e politici.
Una parola, insomma. In più aggiungiamo che l’Italia ha una sua tradizione
musicale (e non solo) di tutto rispetto che ha quasi sempre influenzato i
prodotti artistici fino ai giorni nostri. Negli anni Cinquanta proprio questa
tradizione limita il diffondersi del rock’n’roll
e (dopo il fenomeno Domenico Modugno) del filone cosiddetto degli urlatori.
Anche in Italia naturalmente si può parlare di generi e scuole diverse e
all’interno di queste di più generazioni. In un paese che ha sempre fatto vanto
della propria originalità e della propria genuinità soprattutto nell’arte, tra
i Cinquanta e i Sessanta compaiono i primi «imitatori» degli stili americani.
Si tratta intendiamoci di artisti dal talento cristallino, neanche lontanamente
paragonabili ai prodotti televisivi dei giorni nostri. Adriano Celentano,
Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Mina e poi Gianni Morandi e Rita Pavone. La
diffusione dei nuovi stili di vita anni Sessanta provoca un vero terremoto.
Capozzi distingue la tipica canzonetta (balneare) particolarmente ottimista e
mai passata di moda, da un atteggiamento di vero e proprio disagio (intellettuale
o intellettualizzato) per il progresso o di preoccupazione per la fine delle
strutture tradizionali. Difficile trovare una sintesi. O forse no.
Il più
«influente» esponente del (primo)
rock’n’roll italiano è proprio il Molleggiato che è un capitolo a parte
nella storia della musica italiana e un po’ anche del costume. Da uomo che
proviene da una famiglia del sud esprime sentimenti vitalistici, è maschilista
e sentimentalista a modo suo; è un tipo sospeso tra antico e moderno, vota
contro la tradizione ma non la condanna in toto, anzi. Anche i primi complessi
beat italiani (The Rokes) esprimono un generico ribellismo in salsa familiare o
un «pacifismo didascalico», ma i loro turbamenti sono tutt’altro che
movimentisti o ad alto grado di politicizzazione se si eccettuano i temi
diffusi da Francesco Guccini e cantati dai Nomadi e dall’Equipe 84. Insomma l’Italietta
si muove con cautela.Qualche problema di troppo invece si affaccia con la prima
generazione di cantautori, la «scuola genovese» di Fabrizio De André, Gino
Paoli, Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Umberto Bindi e Sergio Endrigo (che non era
genovese). Su di loro, scrive Capozzi e non ha affatto torto, è stata costruita
«a posteriori» una mitologia ribellistica esasperata. Insomma più che ribelli
da un punto di vista politico i cantautori lo erano da un punto di vista
esistenziale, peraltro in perfetta armonia con le mode intellettuali del tempo.
Si possono sistemare Tenco ed Endrigo sul lato sinistro e De André e Piero
Ciampi nel girone degli anarchici, d’accordo. Ma c’è un legame così forte con
la tradizione italiana che è difficile collocare loro e altri colleghi al di
fuori di un ambiente avulso da seduzioni movimentiste d’oltreoceano. In Italia
il periodo di maggiore incidenza dell’ideologia nella musica non si colloca
tuttavia alla fine dei Sessanta, ma nella prima metà dei Settanta; poi beat
italiano e rock controculturale si trasformeranno nel progressive nazionale e
nei nuovi cantautori. Solo in un caso, scrive Capozzi, pop/rock e canzone
militante si fondono quasi perfettamente: a Milano grazie alle case
discografiche indipendenti, con gli Stormy Six (antifascisti), gli Area di
Demetrio Stratos, e poi con Eugenio Finardi, Alberto Camerini, Ricky Gianco,
Claudio Lolli e Jannacci. Artisti che però erano in maggioranza libertari,
anarchici o portatori di un’ideologia vitalista. Non privi di ironia come
Gianfranco Manfredi e Ricky Gianco, che descriveranno l’happening proletario di
Parco Lambro (1976) e il panorama pre-settantasettino nel segno della decadenza
della controcultura italiana. Ma, attenzione. Si sa ma occorre dirlo. Le
ideologie nel Belpaese non furono solo progressiste ma soprattutto
«neotradizionaliste», conservatrici e antimoderne in senso moralista. E
naturalmente precedettero e di molto l’incontro tra musica e politica. Qui
occorre riprendere il discorso su Celentano, vera e propria miniera. Nel 1966
esce Il ragazzo della via Gluck (sul
cui contenuto credo non ci sia nulla da dire), l’anno successivo dopo essersela
presa coi beat il Molleggiato se la prenderà col divorzio, nel ’70 con le lotte
operaie e così via. Anche Paolo Conte che sarà suo paroliere (Azzurro, 1968) svilupperà temi relativi
al rapporto tra società tradizionale e industriale contrapponendo la metropoli
alla provincia, Gaber ed Endrigo invece tratteranno temi ecologisti in netto
anticipo sui tempi. Giulio Rapetti (cioè Mogol), non sarà da meno. Capozzi lo
giudica un «neotradizionalista» insieme all’alter ego Lucio Battisti. Finirà
per essere giudicato fascista (in quanto non-ideologizzato a senso unico) per
aver sposato la causa del ruralismo e averla contrapposta alle ideologie
radical chic e a quelle della sinistra post-sessantottina.
Dalla fine dei
Sessanta il pop italiano saprà ribellarsi anche alla liberazione sessuale in nome
del più classico maschilismo con Mogol e Battisti (Acqua azzurra acqua chiara, La
canzone del sole, Una donna per amico
e Una giornata uggiosa). Poi si
ribellerà anche al femminismo con gli insospettabili Pooh e con Giancarlo
Bigazzi e Umberto Tozzi (Ti amo,
1977). Insomma l’Italia è rimasta nella stragrande maggioranza
«sentimental-tradizionalista», e non è certo una gran sorpresa. Chiudiamo coi cantautori. De Gregori, Guccini, Dalla e gli altri
cosiddetti impegnati. Gli invincibili difensori della (bella) politica. Almeno
così pare. Capozzi è chiaro: essi non sono «organicamente» inseriti all’interno
dei movimenti della sinistra post-sessantottina. Il tema principe delle loro
canzoni è lo smarrimento interiore. Né più e né meno come i loro colleghi di
prima generazione. Vengono considerati maître
à penser, intellettuali sofisticati e si legano ai movimenti nella misura
in cui i loro sentimenti non puzzano di borghesia. Insomma il matrimonio tra
cantautori e movimento giovanile si gioca non sulla sostanza di un pensiero o
su proposte chiare, ma su un numero pressoché infinito di piccole affinità o
sfumature. Non è odio naturalmente, ma nemmeno grande amore. È il caso tipico
del più dylaniano dei nostri artisti, cioè Francesco De Gregori, ma anche di Antonello
Venditti. I due cominceranno in coppia nel 1972 e andranno avanti
(separatamente) tra frecciatine ermetiche, drammi personali, citazioni dotte,
nostalgismi e sentenze. Roberto Vecchioni, sanremizzatosi un paio d’anni fa, è
sempre stato l’artista preferito di chi abbina impegno e cultura. Anche Claudio
Lolli mescolerà disagio personale e ribellione rivoluzionaria (Ho visto anche
degli zingari felici, 1976). Veri e propri anticonformisti saranno Edoardo
Bennato che userà il rock’n’roll come
scelta per il suo «anarchismo emotivo» anti-autoritario e anti-ideologico; Rino
Gaetano che alternerà provocazioni apparentemente senza ambizioni a cause
pro-emarginati. E infine Franco Battiato, predicatore
«moralistico-aristocratico». Antipolitico per forma e… sostanza. Il discorso è
un po’ diverso per Guccini e Lucio Dalla. Ma il loro interesse per la politica
è racchiuso all’interno di un approccio interiore lontano dal pop/rock
movimentista milanese. Guccini critica la massificazione cantando la civiltà
contadina come luogo autentico (Radici,
1972). Il suo è un socialismo anarchicheggiante, pessimista e perfino
d’ispirazione ottocentesca (La locomotiva).
Dalla è anch’esso anticonformista peraltro cattolico, e rifiuta il progresso
nel periodo di collaborazione col pasoliniano Roberto Roversi, poeta attratto
dagli emarginati e ossessionato per la fine dell’Italia rurale. Nel 1976,
aggiunge Capozzi concludendo un volume costruito su tesi interessanti e come
abbiamo visto pieno di informazioni, si consumerà la definitiva rottura tra i
cantautori e la politica come esaltazione dell’ideologia. A Milano (2 aprile) i
contestatori di estrema sinistra disturberanno un concerto di De Gregori che
verrà anche “processato” sul palco. È il picco di una tensione consumatasi nel
periodo 1975-78. Un periodo, compreso il successivo, di scelte fondamentali per
i cantautori: diventare strumento della contestazione che si avvia verso fasi
nuove (e distruttive) o ribadire la loro indipendenza? Il risultato sarebbe
stato fino alla fine del decennio un accentuato pessimismo e la percezione di
un nuovo isolamento. Come condimento: la nostalgia o la finta nostalgia per le
tante occasioni perdute. Scarso tuttavia sarebbe stato lo spazio per i
ripensamenti. Gli album di De Gregori, “De Gregori” (1978), di Guccini, “Via
Paolo Fabbri 43” (1977) e “Amerigo” (1978), e di Dalla “Come è profondo il
mare” e “Lucio Dalla” (1979) saranno lì a testimoniarlo. Iniziava la fase del
“riflusso”. Qualcuno l’avrebbe chiamata pure fine delle passioni, con molto coraggio
e una particolare idea delle passioni.
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