Alberto Pezzini
Come fa un giornalista a scrivere di persone e cose di un secolo fa
senza la minima fatica? È quanto ha fatto Massimo Nava in Il garibaldino che fece il Corriere della Sera (Rizzoli, pp.
285, euro 19,50), un libro dove il giornalismo non si beve, ma si raccoglie a
piene mani. Massimo Nava è editorialista e inviato per il Corriere della Sera oggi – da Parigi – ed è capace di scrivere di
storia senza annoiare neanche un minuto. Praticamente un record. Soprattutto
con un libro che racconta del giornalista che inventò e diresse quello
che diverrà il più autorevole quotidiano italiano: il Corriere della Sera.
Eugenio Torelli era un napoletano alto e biondo, innamorato delle brume
settentrionali, quelle che aleggiano sui laghi della Lombardia. Non soltanto
seguirà Garibaldi nel 1860, ma avrà a Napoli in Alexandre Dumas padre e ne L’Indipendente la nave scuola della
propria vita. Da lui imparerà l’arte dell’immagine efficace e una scrittura
mobile, già moderna per quei tempi. Si amalgameranno insieme tanto da sembrare
una sola penna. Quando Dumas spiegava, innamorato della cucina per cui scriverà
un dizionario in anticipo sull’Artusi, che la pizza a otto così era chiamata
perché il suo impasto veniva fatto lievitare per circa otto giorni, Eugenio gli
evitava la magra figura spiegandogli che i napoletani in realtà la pagavano
otto giorni dopo, a causa delle magre condizioni economiche. Quando Dumas
decise l’avventura in America, Eugenio osò rispondergli che non avrebbe potuto
fargli da segretario per tutta la vita. Dumas comprese e gli lasciò un
biglietto :”Mio caro Eugenio, alla mia età non si può più parlare di avvenire.
Ma finché io vivrò avrete sempre diritto al mio sole nei giorni d’inverno e
alla mia ombra nei giorni d’estate”.
La sua vita era cominciata lì, in quell’orgoglioso rifiuto. Andrà a
Parigi, e poi a Milano per l’editore Sonzogno. E siccome sua mamma era una
francese, Josephine Viollier, lui aggiungerà quello materno al suo cognome:
Eugenio Torelli Viollier. Scriverà per il Secolo
di Sonzogo, a fianco di Felice Cavallotti, che con lui sarà meschino. Stava intanto
cominciando a pensare a un giornale nuovo, moderato e indipendente. Guardava ai
giornali inglesi, i migliori d’Europa, e stava attento a non compromettersi mai
politicamente. La sua equidistanza e imparzialità – che subito verranno viste
come un difetto – diverranno in seguito una dote aggiunta. Eugenio fonderà il Corriere che sarà della Sera perché uscirà nel tardo pomeriggio bruciando ai blocchi
gli altri giornali. Il primo numero divorerà più di quindicimila copie con la
data 5/6 marzo 1876 alle 21, primo giorno di Quaresima, quando a Milano i
giornali per tradizione non escono. Fu il primo colpo di Eugenio che – conoscendo
i suoi nemici – decise di devolvere il primo incasso in beneficenza per
controbilanciare le malelingue. Già di lì, da quell’intuizione strategica, si
capì che non era soltanto un giornalista capace di scrivere in anticipo sugli
altri, ma possedeva una visione moderna del giornalismo. Inventò il giornale
collettivo, dove anche il tamburino poteva avere un’importanza fondamentale.
Nessuna notizia veniva trascurata, e le pagine dovevano essere tematiche. La
sua dote fu la moderazione, la capacità di smarcarsi sempre a livello politico
così da impedire a chiunque di mettere la mordacchia alla sua indipendenza.
Quando Eugenio Torelli si dedicava alle elezioni non parteggiava mai per
un candidato, ed affiggeva immediatamente sul cartellone a muro – tre ore prima
degli altri giornali e prima ancora che sul giornale vero e proprio – i
risultati. Il suo principio era l’informazione avanti tutto. Era un direttore
d’orchestra che si chiudeva nella propria stanza – dopo avere dettato le
istruzioni a tutti – lasciando socchiusa la porta in modo che il cordone
ombelicale fosse sempre visibile con il resto del giornale. Fu un giornalista
puro, uno scrittore mancato al quale la carta stampata faceva anche da
famiglia. Portò il fratello a fare l’amministratore – il primo e ultimo del Corriere a non essere pagato – la
sorella Luisa a casa, anche se la stessa sarà responsabile del suo divorzio con
una bella donna dotata d’ingegno e di un’esperienza di vita troppo spigliata
per lui che ricercò l’amore tutta una vita. Restò un romantico inflessibile che
sapeva fiutare il vento della notizia. Quando morì Vittorio Emanuele II ebbe un
colpo d’ingegno. Di solito tutti i giornali ripetevano a pappagallo le giornate
del sovrano morente scandite dai bollettini medici. Una pena e una noia
mortali, appunto. Torelli capì che l’argomento non si poteva sprecare così.
Mise la morte in prima pagina. Raccontò per qualche giorno gli antefatti, i
particolari inediti anche se verosimili, i pettegolezzi, quello che mancava
alla cucina degli altri giornali. Il pubblico rispose. Sembrava che il Corriere ne sapesse sempre di più. Si
trattò del primo, vero reportage di costume, in cui il particolare fece la
differenza. Come gli aveva insegnato Dumas. In effetti, se si legge la prosa di
Torelli oggi, non si può non restare impressionati dalla modernità della lingua
e delle sue immagini. Torelli si rivolgeva al pubblico e nel primo editoriale
fu sincero fino alla ruvidezza. La gente lo amò. Lo intitolò “Siamo
conservatori e moderati, ma teniamo al progresso”, e fu un articolo che ancora
oggi potrebbe essere letto nelle scuole di giornalismo per la sua concretezza e
la mancanza di paura sulla pagina, la limpidezza, l’arte di dire tutto in modo
diretto senza timore di sbagliarsi. Ma la cosa più importante fu la capacità e
la determinazione che impresse alla sua idea:fare finalmente un giornale che
non fosse a tesi, soltanto a due suonate, una per esaltare i meriti de’ suoi
amici, una in minore per gemere su’ demeriti degli avversari. Su questa idea si
appostò la grande differenza tra Torelli e gli altri. Il Corriere diventerà l’organo d’informazione preferito dalla grande
borghesia lombarda che nei suoi articoli prese a specchiarsi senza paura. Nel
frattempo Torelli conoscerà l’agiatezza, la disperazione privata datagli da un
divorzio che concluderà un matrimonio di soli due anni celebrato con la donna
sbagliata. Finirà male anche perché accelerato dal suicidio della nipote,
venuta a vivere con la coppia per desiderio espresso della moglie. Eugenio
resterà un uomo innamorato dell’altrove, privo di una vera famiglia che
ricercherà sempre. I suoi amori vicari resteranno le case che acquistava purché
grandi, enormi, per “famiglie” quasi a compensare un vuoto specifico ( spenderà
più di un milione di lire del tempo per edificare un palazzo nel centro di
Milano) e per acquistare una villa sobria sul lago di Como, dove Bellini aveva
composto la Norma. Lì occuperà la stanza del compositore e in quella casa vivrà
come direttore del giornale “a distanza” , come si definiva lui, quando la sua
creatura dimostrava già una autonomia inusitata.
Torelli Viollier morirà il 26 aprile del 1900. I suoi nemici, quelli del Secolo, non gli perdoneranno mai di
averli “traditi”, ma dimostreranno soltanto di non riconoscere i meriti
dell’unico giornalista con una visione assolutamente nuova, davvero incendiaria
per i tempi, e forse anche per oggi. Gli riconosceranno soltanto l’onore delle
armi, ma non giornalistico, bensì quello più riduttivo rappresentato dal fatto
di avere beneficato redattori, proti e giornalisti in genere. Gli ultimi anni
sul lago furono per Torelli forse abbastanza sereni, anche se tristi. A Nava
non è sfuggito che a Villa d’Este (uno dei più begli alberghi del mondo sbocciato
proprio in quegli anni e in cui Eugenio si recava per fare un po’ di vita
mondana) le luci delle stelle si confondono con quelle tremolanti delle candele
accese sulla terrazza. Di notte. A noi piace pensare che una di quelle luci sia
la stella di Torelli, quella del Corriere
della Sera.
Nessun commento:
Posta un commento