Annalisa Terranova
Nell’ottobre del 1956, in occasione della rivolta
d’Ungheria, il Secolo è ancora una volta centrale nel seguire le vicende
dell’invasione sovietica. Il 25 ottobre il quotidiano titola a tutta pagina:
“Massacrati i patrioti ungheresi dalle truppe russo-comuniste”. In una
corrispondenza da Vienna pubblicata in prima si legge: “Un silenzio di morte è
sceso lungo la cortina di ferro trasformatasi, in seguito al massacro di
Budapest, in una vera e propria cortina di sangue”. In un altro pezzo si
sottolinea la difficoltà di reperire notizie (allora come oggi uno scenario di conflitto
può essere giornalisticamente “coperto” solo stando sul campo) e si lascia
intuire la drammaticità della situazione: “Radio Budapest continua a lanciare
appelli che in Occidente possono a malapena essere uditi, perché continuamente
disturbati. In tali appelli vengono chiaramente ammessi accaniti combattimenti
per le strade, l’impiego di truppe sovietiche e numerosi morti…”. Il giorno
seguente il titolo di prima recita: “Disperata lotta del popolo magiaro contro
la bestiale reazione comunista”. Un titolo a nove colonne sormontato dal
seguente occhiello: “Gloria agli eroici combattenti dell’Ungheria Libera”.
Due
giorni dopo un editoriale rivendica la data del 28 ottobre legando la
ricorrenza alla ribellione anticomunista: “Il Secolo d’Italia in nome dei
milioni di fascisti che ieri furono orgogliosi di esserlo, che operarono e si
sacrificarono e domani torneranno nelle nostre schiere, saluta con commossa
solidarietà coloro che la stampa comunista ha onorato definendoli i “fascisti”
di Budapest e si inchina per rendere omaggio agli Eroi anticomunisti di
Ungheria accomunandoli a quanti hanno difeso la Causa della Civiltà contro il
criminale bolscevismo di Mosca”. Il Secolo invierà due corrispondenti a seguire
i fatti d’Ungheria: il caporedattore Giuseppe Dall’Ongaro, che negli anni
Settanta sarà direttore de Il Settimanale, e la giornalista Nelly Tasnary,
ungherese di nascita, moglie di Filippo Anfuso.
L’anno seguente, nel 1957, il giornale promuove una campagna
di firme per sollecitare la restituzione della salma di Mussolini alla
famiglia, consegna che avvenne il 30 agosto del 1957 per interessamento
dell’allora capo del governo Adone Zoli (Dc), nativo di Predappio. Il Secolo dà
conto della notizia con un titolo a tutta pagina: Mussolini restituito all’Italia.
Sotto, una grande foto di donna Rachele, fazzoletto nero in testa, che accoglie
i resti del marito nel cimitero di San Cassiano. Colpisce la sua espressione,
afflitta ma dignitosa. Nell’editoriale di Franz Turchi, dal titolo “Ritorna”,
si rivendica la battaglia “per la fine del dopoguerra, per la pacificazione tra
gli italiani, per il ritorno della Patria a se stessa. Viva il Duce! Viva
l’Italia”. Turchi replica inoltre alle critiche della Dc che accusava il
Msi di avere strumentalizzato l’evento e
chiarisce che lo stesso De Marsanich gli aveva chiesto di interrompere la
campagna del Secolo per permettere al
presidente del consiglio Zoli di fare il suo dovere senza pressioni e
interferenze politiche. Si trattò dunque, stando a questa testimonianza, di una
campagna autonoma e non eterodiretta dal Msi. Sulla prima che annunciava il
“ritorno” di Mussolini scrisse anche Filippo Anfuso: “In campagna elettorale i
miei siciliani mi chiedevano ‘Unn’è Mussolini?’. I siciliani che mi chiedevano
di lui sapevano benissimo che egli era dovunque fossero coloro che in lui
avevano creduto”.
Sono rimasta stupita, rivedendo quelle pagine, dal finale
del fondo di Turchi, da quel Viva il Duce! in prima pagina: ma eravamo a dodici
anni dalla fine della guerra e dalla fine del fascismo, eventi che segnavano in
profondità la società italiana, davvero bisognosa di una pacificazione. Basti
pensare che il Msi organizzò in tutte le città messe in suffragio per Benito
Mussolini che finalmente “riposava in pace” e molti si presentarono a quelle
celebrazioni con la camicia nera. Oggi la strumentalità sia dell’antifascismo
sia del neofascismo appare tanto più evidente rispetto alla sincerità degli
episodi che sto raccontando e anche molto più ipocrita, perché tesa al solo
tornaconto elettorale.
Nel 2007, 50 anni dopo la riconsegna della salma del Duce
alla famiglia, sul Secolo diretto dalla “compagna” Perina e dal “compagno”
Lanna scrissi un lungo articolo su donna Rachele, raccontando di come l’avevo
conosciuta, durante uno di quei “pellegrinaggi” organizzati nei “luoghi della
memoria” che costituivano uno dei passatempi preferiti dai missini. Ecco un
passaggio di quell’articolo: “Poterla conoscere era per un giovane
frequentatore di una sezione del Msi un insperato privilegio. Anche chi scrive
ha fatto parte un giorno della speciale comitiva di giovani in visita a Villa
Carpena, che comprendeva numerosi attivisti delle sezioni romane Colle Oppio e
Prati. Erano i luttuosi anni Settanta. Lei ricevette quel gruppo romano sotto
un pergolato. Vestita di nero, nero anche il fazzoletto che le copriva i
capelli, annodato alla contadina dietro la nuca. Appariva piccola ma non
fragile, e colpivano in modo particolare quei suoi occhi chiari, vivacissimi e
mobili, che si posavano a turno su ciascuno. Parlò a lungo, in una lingua più
simile al dialetto che all’italiano. Pochissimo si comprendeva di quella
narrazione non più concitata ma non ancora distaccata, in cui continuamente
veniva citato il maresciallo Badoglio e in cui il marito non era Benito ma,
semplicemente, il Duce. Il nostro fu un omaggio silenzioso. Nessuno se la
sentiva né di chiedere né di interloquire. Ce ne andammo con il ricordo di
quello sguardo azzurro e luminoso, da nonna saggia che ne aveva viste troppe,
ma senza lasciarsi “inquinare”. Eppure, quella donna da cui sembrava che la
storia si fosse tenuta distante, preservandola dalla tragedia e consegnandola a
un ritiro campestre, fitto di ricordi e di nostalgia, era stata a suo modo
protagonista di uno dei matrimoni più anticonformisti del secolo. Rachele e
Benito si unirono civilmente in matrimonio nel dicembre del 1915 e si sposarono
con il rito religioso solo dieci anni dopo, nel 1925. Due matrimoni, ma senza
viaggi di nozze, perché lo sposo era troppo indaffarato. Finché lui non se ne
ricordò, un giorno, dopo la proclamazione dell’Impero, e le disse di prepararsi
per quel viaggio di nozze sempre rinviato. Era stata inaugurata da poco la
littorina che congiungeva Roma a Riccione. Il Duce la “sequestrò” per
ventiquattro ore, ci fece salire solo la moglie e, messosi al posto di guida,
la condusse fino a Riccione”.
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