Con la scomparsa di Luciano
Vincenzoni, morto ieri a 85 anni, è come se si chiudesse una pagina tra le più
importanti della storia del cinema, non solo italiano. Nato a Treviso nel 1928,
Vincenzoni è stato sceneggiatore e amico di registi come Mario Monicelli e
Sergio Leone, Pietro Germi e Carlo Lizzani, René Clement e Peter Bogdanovich,
Billy Wilder e Terence Young. Sodale e intimo di personaggi come Jack Lemmon e
Walter Matthau, Silvana Mangano e Ennio Flaiano. Debuttò nel 1954, a 26 anni,
con Hanno rubato un tram di Mario
Bonnard con Aldo Fabrizi e tra i suoi titoli autentiche pietre miliari della
storia del cinema: La grande guerra e
I due nemici, Sedotta e abbandonata e Signore
e signori, Per qualche dollaro in più
e Giù la testa, Il buono il brutto e il cattivo, Cosa è
successo tra mio padre e tua madre? e Il
conte Tacchia…
Nel 2005 Vincenzoni in un
bel libro autobiografico – Pane e cinema
(Gremese, pp. 190, euro 14,50) – ha anche svelato la motivazione decisiva che lo portò a scrivere per
il cinema, il suo incontro con l’opera di Céline: “L’incontro fatale, la vera
svolta. Avevo sedici anni – racconta – e c’era la guerra, e una mattina, a
Padova, dopo una grandinata di bombe americane, le sirene avevano dato il segale
di cessato allarme. Digerita la paura, mi diressi verso casa, quando su una
bancarella di libri usati vidi e comprai Viaggio
al termine della notte, di Céline. Quel titolo mi aveva colpito,
affascinato...”. E più avanti: “Ho letto molto nella mia vita ma nessun libro
mi ha dato quelle emozioni. Quella vecchia copia, polverosa e ingiallita, è
sempre rimasta davanti a me per tutta la vita, è stata la mia Bibbia. Il Viaggio è uno stupendo, delirante
affresco in cui s’intrecciano pietà, ironia e tragedia ed è soprattutto una
denuncia contro le aberrazioni della società di massa, contro le guerre, contro
la miseria fisica e morale, contro il degrado delle periferie urbane, contro i
ricchi che diventano sempre più ricchi, una denuncia mescolata a vera pietà per
i poveri che diventano sempre più poveri”.
Vincenzoni ricordava anche
come il Viaggio al termine della notte
è stato il sogno di tanti registi, lo avrebbero infatti voluto realizzare
Renoir, Carné, Clement e anche il suo grande amico Sergio Leone, che aveva
conosciuto il romanzo vedendolo sul suo tavolo. Lo lesse con passione e andò
anche in Francia con l’intenzione di realizzarlo. Non ce la fece a trovare il
produttore, ma alcune suggestioni céliniane finirono sia in Il buono, il brutto e il cattivo che in Giù la testa. Così come Vincenzoni
rielaborò l’antimilitarismo e l’orrore della guerra di trincea di Cèline nell’ispirazione
del monicelliano La grande guerra. “Céline
– annota ancora Vincenzoni in Pane e
cinema – morì nei primi anni Sessanta, disprezzato, umiliato, in povertà.
Peccato, perché se avesse tenuto duro avrebbe visto, come ho visto io, nel
1968, a Parigi, i giovani contestatori sulle barricate con la copia di Viaggio al termine della notte sotto il
braccio. Era diventata la loro Bibbia. Alla fine Céline aveva vinto…”.
Alla fine degli anni
Sessanta Vincenzoni a New York ebbe la fortuna di imbattersi in un altro suo
mito letterario: Jack Kerouac, il papà della beat generation, l’autore di Sulla
strada. Durante una cena in un ristorante del Village, di Céline dovette
ammettere: “Ho avuto la fortuna di leggere il Viaggio. E dopo questo capolavoro ho smesso di leggere gli altri autori
europei, perché ho pensato che non si poteva andare oltre”. Più di vent’anni
dopo un giudizio analogo viene formulato a Vincenzoni da un altro grande
scrittore americano: Charles Bukowski: “Stavo a Los Angeles e avevo saputo che
abitava nel quartiere degli artisti, a Venice. Mi procurai l’indirizzo, una
cassa di Chianti e andai a trovarlo…”. Tra una bottiglia e l’altra, Vincenzoni
gli domanda la stessa cosa chiesta anni prima a Kerouac: chi fosse il suo
scrittore europeo preferito? E Bukowski non esitò un attimo: “Il più grande è
Céline, il suo Viaggio al termine della notte è insuperabile…”.
Per ricordare Vincenzoni non
ci sono parole migliore dell’esordio del suo libro: “Ero un brillante studente
di legge, i miei parenti sognavano che facessi l’avvocato, invece ho tradito
giurisprudenza e famiglia per fare cinema, forse perché ero e sono un
cantastorie…”.
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