Fabrizio Baleani
In principio fu la meraviglia. Cominciamento e scaturigine
d’ogni sapere. A incorniciare questa massima
per affiggerla sulla parete ingombra dell’immaginario d’un liceale arruffato
qual’era chi scrive, ormai oltre un decennio fa, fu una mingherlina professoressa, dal corpo
piccolo e ossuto. Costei, rattrappirebbe
ancora di più nelle sue forme minute se sapesse che il celebre passo del libro
alpha della Metafisica d’Aristotele,
contenente l’accenno allo stupore come causa della conoscenza, è usato oggi per cedere quarti di nobiltà
alla nascita, in seno al dibattito delle idee, nientemeno che d’una Popsophia.
E maggiore sbigottimento rapirebbe
l’insegnante di cui sopra se quest’ultima scoprisse che l’autore d’una simile
appropriazione, più o meno debita, non è uno dei numerosi saltimbanchi
dell’industria culturale, magari
scarsamente interessato alle pellicole e ai libri che determinano la sua
sopravvivenza e affaccendato a
esercitarsi nella dimestichezza coi sorrisi di rimando mentre bacia e abbraccia
in scrupolosa sincronia con gli spazi orari bianchi della propria agenda. No, a scomodare lo Stagirita è Umberto Curi, storico del pensiero dell’Università di
Padova curatore delle rassegne filosofiche di Poposophia un festival ormai celebre, già di marca
civitanovese, migrato, nell’ultima
edizione, a Pesaro, e frequentato, tra gli altri, da chi di mestiere
medita, provoca e formula analisi affollando le pagine culturali dei
nostri quotidiani e impreziosendo
approfondimenti televisivi e
talkshow. Teste lucide e celebrate.
La mole intellettuale
di Massimo Cacciari, Giacomo Marramao,
Umberto Galimberti ed altri conclamati acumi peninsulari, offerta alle
ruminanti materie grigie del vasto pubblico, in compagnia d’altri free lance
della speculazione, impegnati annualmente
a ridefinire la materia del riflettere, calibrandola su temi popolari
come la moda, la pubblicità, il porno,
le serie tv. Oltre a fornire il nome ad appuntamenti estivi gravidi di
spunti sul contemporaneo, la filosofia popolare si candiderebbe al ruolo di
vero e proprio genere culturale, tendenza legittima tra i territori
riservati, solitamente, a una pletora di
accademici paludati e pedanti. La ragione
di questa singolare Kulturkampf capeggiata da uno sparuto ma influente gruppo
di intelligenze, è tesa a recuperare la genuinità di un interrogare razionale,
quello dei primi pensatori, che nulla
aveva di astrattamente intellettualistico e si
immedesimava, piuttosto, con un
modo di vita, un’attitudine a passare al
setaccio d’una vertiginosa opera di
ricerca, la realtà in ogni sua sfaccettatura. Secondo lo studioso ed
editorialista del Corriere della Sera,
tra gli inventori della kermesse marchigiana, infatti, la filosofia
nasce pop, i primi filosofi venivano
definiti sophoi, ossia sapienti, tali erano considerati dai loro coevi
concittadini non già perché coltivassero lo studio di una disciplina
particolare, edificando cattedrali o presidiando cattedre, bensì perché
vivevano integrati in una comunità,
dediti all’arduo compito di far prevalere la razionalità sull’ignoranza, la
superstizione e l’idolatria.
In questo ritorno alle origini, Curi precisa anche
come i primissimi avventurieri di questo particolare tipo di prassi critica,
tutti preceduti, secondo la tradizione e la manualistica, da Talete di Mileto,
non si sentissero custodì di verità
prime o di culti inaccessibili, alla maniera di certi santoni, ma, al
contrario, venissero percepiti come presenze utili a scandagliare i diversi
lati della realtà sociale e politica. Erano, in sostanza, coinvolti
nella polis, cittadini tra cittadini, parte di quel demos che si riuniva
nelle assemblee, non una classe avvolta nel privilegio, un’adunata di dotti rinchiusa nel fortilizio
d’una Verità granitica. Lo squarcio sul Velo di Maya di quel pregiudizio
deformante che insacca lo spazio della comprensione nelle ragnatele d’una torre
d’Avorio, avrebbe dunque radici presocratiche
e sgretolerebbe uno dei muri che i pop
filosofi intendono distruggere armati del proprio pop martello nicciano: le
dicotomie tra i saperi specialistici, ritenuti chiusi, astratti e sottratti al
mondo dell’esistenza concreta. Sciolte le bende di quell’inganno, lo sguardo di
un novello Prometeo incline a rubare nuovi e più moderni segreti agli Dèi si
sposta su un oggetto del conoscere che non prevede separazioni e si mostra
sconfinato, illimitato, non trascura nessuna prospettiva d’indagine.
Toccò a
Platone e, successivamente, ad Aristotele col sorgere delle scienze (le
epistèmai) tenere a battesimo
l’accezione disciplinare (e autoreferenziale) della filosofia. Tuttavia, ben
prima d’ogni algida tassonomia e classificazione dell’esistente nelle camere
singole delle discipline specializzate, entrambi i due immensi metafisici dell’antichità classica, sempre
secondo Curi, sarebbero concordi nell’individuare l’aurora d’ogni ingegno
speculativo nel thauma, ovvero in uno stupore o scuotimento precedente ogni
formulazione sistematica, una dimensione affettiva presentata come alimento di
qualsivoglia curiosità bramosa di farsi meditazione radicale. Sia i miti,
vividi strumenti di densa verosimiglianza
maneggiati dall’Ateniese, sia l’arte Poetica, approntata dall’autore dell’Etica Nicomachea per decifrare il saporoso sapere delle
passioni umane, restituendone timori e
tremori, in uno sfavillio di storie e
immagini a un tempo verosimili e contrarie alle aspettative di chi le scruta,
sarebbero topoi di una “conoscenza mossa
dall’affetto”, un pathos educante, piacevole e
intimo, pregno, nell’opinione del
pop-sopho, della stessa profondità conchiusa nelle proposizioni di Spinoza.
La questione , tuttavia è nell’oggi. Infatti, il
“fare” poetico e pratico, ammirato sotto una lente squisitamente attuale
e popular, sembra non prevedere
soluzione di continuità tra un dramma d’Euripide e l’odierna società dello spettacolo. Atene in questo senso è dappertutto, o,
forse, da nessuna parte. Appiattita in
una gigantesca “pop-polis” telematica. A
risultare sovrana è la dimensione ludica,
la giostra dei giochi di parola e il gusto del paradosso telecomandato.
In un climax ascendente d’eccitazione, Simone Regazzoni, uno degli ideologi del
pop pensiero, ostenta intenzioni bellicose: “ Mi pare giunto il tempo di
riportare la battaglia filosofica nella
cultura popolare(..) esiste una molteplicità aperta di mondi interconnessi,
alla cui produzione e al cui conflitto, partecipano essenzialmente i mezzi di comunicazione e la cultura di
massa. La filosofia si trova immersa in questi mondi e deve prender parte alla
loro trasformazione”. Ma il tenore di queste dispute più che al marziale vigore
di statuari profili greci s’addice al lucore di ritoccati profili
facebook. Una perenne seduzione
gorgiana, nel duello delle convinzioni a buon mercato. Un discorso di puro tono,
celebrazione del non-sense, vita alterata, magari gioiosa, ma gracchiante, ripetitiva e fasulla come frasi bisbigliate da un
megafono. Intendiamoci non c’è nulla,
tra queste righe, contro il divertissement colto. E tutti rimangono giustamente
liberi d’elaborare e vendere, con l’aiuto di un paratesto accattivante, d’una
grafica che emani leggiadrie,
dissertazioni ben congegnate su Superman o Lost, oppure d’analizzare le
strisce di Charlie Brown, come si
succhia una caramella dal vago retrogusto esistenzialista.
Ma se ogni questione di senso fosse condizionata dalle norme di un dispositivo commerciale
dominante che ne dettasse i criteri di
leggibilità, comprensione e affermazione, la
quasi totalizzante esperienza ipermedatizzata colonizzerebbe
inevitabilmente il dibattito,
tramutandolo in una sorta di
cosmesi della conversazione pubblica, utile a immortalare carriere già
affermate con l’imprimatur dell’approvazione
di massa, a spalmare nozioni e concetti sulle classifiche di gradimento
aperte al plauso verso l’imperatività del main stream, a ricalcare l’esistente spartendo nello
specchio deformante d’un accorto opinion
making indignazioni e compiacimenti
in un’arena falsa come un parrucchino,
nella quale ciascuno dirà esattamente ciò che da lui s’attende la platea dei
cervelli a bombetta . Occorre sempre
ipotizzare un’alterità per sapere, altrimenti ogni profondità resta nell’epidermide di quel noto che non è mai conosciuto. Quando non
esiste un oltre a cui rivolgersi, lo
stupore filosofico degli antichi è un usato balocco per la mente disperso in un sistema di simulazioni e mediazioni
interconnesse dove tante solitudini scambiano assensi e dissensi telematici,
fiati d’un vivere liquido e senza fessure sul mondo, su nessun mondo che sappia
permettersi una qualche via di fuga,
allentando i legami tra riflessione e consumo d’opinione . Può darsi
sia un effetto di quella realtà integrale già tratteggiata dai presagi
apocalittici di Jean Braudillard. Un episodio realmente accaduto può chiarire meglio di cosa si tratti.
Qualche anno fa una donna rumena è stata uccisa, con un pugno, a una fermata della metropolitana di Roma. La
percezione diretta di questo avvenimento è stata pressoché nulla: la folla ha
continuato a fluire tranquillamente prima di accorgersi, o di accettare di
accorgersi, che c’era una donna a terra. La percezione mediata, grazie alla
solita telecamera di sicurezza che ha ripreso tutto, ha sollevato un’ondata di
riprovazione per l’assassino. Siamo a quell’aporia massmediologica secondo la
quale se un albero cade nella foresta e la televisione non lo riprende,
l’albero non è mai caduto. Pensare non fa eccezione. Quando è finalizzato a
trasformarsi in una strategia di vendita
appesa come un’altalena al cielo
della domanda e dell’offerta somiglia a una notizia sgranocchiata dalle
mascelle d’un clamore crepitante e perde il suo oggetto in una catena
ininterrotta di surrogati della cognizione. In questo caso anche la filosofia,
divenuta pop, sarà identica alle tante altre maschere che essa pretende o finge di dismettere. Proprio mentre ne indossa altre, con un’aria
un po’ più disinvolta. Una posa. Ovviamente graditissima , in grado di
propagarsi. Dolce, suadente e ballabile. Un pezzo da hit parade.
Nessun commento:
Posta un commento