sabato 31 maggio 2014

L’eterno ritorno degli Orazi e Curiazi? Per farla finita con gli archetipi (politici) dell’antica Roma



Marina Maugeri

(liberamente ispirato agli scritti di René Girard e Michel Serres)

Strano a dirsi, benché come scrive Tito Livio non vi sia “altro fatto antico che sia più famoso” di questo, non è affatto certo a quale delle due città, Roma e Alba Longa, appartenessero i tre gemelli Orazi e i tre gemelli Curiazi, campioni di un duello a sei teste che decide delle sorti di uno degli scontri più fatali della storia, simbolo nefasto di guerra civile. Essere gemelli nel mito vuol dire avere a che fare con un conflitto che non decide, essere portatori di una reciprocità simmetrica, dunque identica, che getta fatalmente nella crisi e nella risoluzione sacrificale, il campo che miete Marte, nel quale si scontrano coppie di doppi rivali in un conflitto da cui solo i poeti, scrittori di storia mitica, sanno trarre fuori la genesi di una nuova fondazione. La violenza trasforma gli “eserciti” dei fratelli-nemici in due insiemi indifferenziati, pari “d’età e forze”, coppie gemellari senza identità, dietro le quali premono comunità che sono dilaniate da una peste contagiosa, un tipo di turbolenza che è la lotta per il possesso della terra, una cosa che emana una luce effimera ed è la cosa mia, la cosa tua, la cosa nostra. Allo schieramento di campo delle due triadi penseranno perciò solo gli storici, collocando i campioni degli Orazi dalla parte di Roma, quella dei Curiazi nel fronte di Alba Longa. Lo scontro che divide le due città è il simbolo di un conflitto empio e fratricida.



Alba è la città madre di Roma, annovera nel suo ceppo mitico capi selvaggi e re che oppongono la loro destrezza alla turbolenza della molteplicità e sono plasmati al comando dalla lotta impari che ingaggiano con la forza trascinante degli elementi. La Città dei pater ha perciò questo ramo femminile, nel quale risiede integra la potenza generativa di una regina, su cui la storia scrive come molle cera, ma solo a colpi di profanazioni, empietà e stupri. La matrice del conflitto risiede perciò in questo nodo oscuro e celato, latente come vuole il Lazio, la terra del nascosto.  Albalonga e Roma sono in guerra permanente, si scelgono perciò dei campioni fra due famiglie che sono unite per matrimoni, il cui scontro deciderà le sorti delle città. Tuttavia nello scontro-ordalia le forze si equiparano al tal punto che il destino delle due città rimane a lungo sospeso in un duello che non decide. La battaglia è in corso, due degli Orazi sono già colpiti a morte mentre il terzo si è dato indecorosamente alla fuga, perciò anche il pater degli Orazi si prepara ad uccidere quel figlio che indietreggia, gettando i Romani nel disonore. Presto però ci si accorge che la fuga del giovane romano era solo uno stratagemma, che Orazio ha fatto scattare l’arma dell’astuzia e si è trasformato da prode in un vile fuggiasco ma solo per costringere i Curiazi a rincorrerlo e al momento opportuno, quando la triade albana ha disperso la coesione e la potenza del numero, egli ha invertito di nuovo il movimento della corsa e con uno scarto decisivo della schiena ha mutato il corso della storia. Le sorti delle due Città si decidono in questo attimo, perché se Orazio soccombesse ora farebbe sorgere un mito diverso e sarebbe il fondatore di Alba e non di Roma. Ma il furore procura ad Orazio le armi per seminare il panico, mentre il sangue avvampa i cuori degli astanti. Lo spettacolo dell’imminente uccisione concentra gli sguardi sul campione dei Romani ed è la somma di tutti i genitori e degli dèi patrii, una pressione che si fa testuggine e solleva il fragore del tuono, il frastuono della molteplicità. La turba si compatta unanime e forma il corpo di una belva, propriamente un draco, termine che deriva dal greco drákōn, ma curiosamente non indica ferocia, quanto piuttosto l’azione del guardare, il fissare lo sguardo. Tre contro uno. Orazio è solo, ma il suo isolamento riunifica e compatta. Tutti gli sguardi convergono a raggiera su di lui, insigne perché isolato, distinguibile dal resto, peculiare in quanto capace di riassumere la molteplicità, capacità che è potenzialità, potenzialità che è potere . Tutti i segmenti degli sguardi confluiscono sull’eroe isolato e si fanno pressione. Pressione che è forza, potenza che scaturisce dalla totale simbiosi dell’eroe con la belva che fissa lo sguardo su di lui. Orazio la trasforma nella distruzione che si abbatte su un’altra fiera . I suoi occhi lampeggiano come dardi di fuoco. La lama colpisce i campioni albani uno dopo l’altro. I Curiazi cadono sul campo e trascinano Alba nella sciagura. Non è il circo, non ancora, ma è l’origine della tragedia e del diritto. Roma uccide Alba Longa. Roma è un tratto di penna nero che scrive un nuovo inizio nella sua storia. La fondazione necessita della ripetizione. L’impresa di Orazio si direbbe perciò compiuta, ma il furore è una potenza di cui non ci si sbarazza tanto facilmente e Orazio è questa forza distruttrice.  Dal campo insanguinato sull’Appia, il campione romano si prepara a rientrare in Città per la Porta Capena trascinato da una folla in preda a un’ebbrezza esaltante. Il passaggio nel pomerio è l’attraversamento di un campo consacrato dagli auguri che vi hanno fissato dei cippi affinché gli edifici non siano mai troppo contigui alla cinta. Il corteo si accinge perciò a varcare una terra di nessuno, dove l’uomo non è più padrone. Ma all’improvviso la turba è scossa da un sussulto. Nell’aria s’agita un suono diverso, una musica che è amore e dolore. Il singhiozzo di una fanciulla sovrasta ogni clamore, il suo dolore scioglie chiome e lacrime sul corpo esanime dell’albano suo sposo.  Un solo occhio sporco. Il campo è seminato, attende solo la scintilla. Qualcuno lancia un’invettiva e il lampo si accende. Il fulmine è un bagliore improvviso, la saetta di Febo Apollo appartiene a un dio che è tutt’altro che benevolo e languido, come vorrebbe la sua luminosa immagine, ma propriamente saettante, in grado dunque di debellare la “peste”, ma solo nella stessa misura in cui si ritiene che sia stato il dio stesso a scatenarla e lo si consideri perciò altrettanto capace di risanare la quiete. Lesta, improvvisa, micidiale un’arma si abbatte sulla fanciulla come una mannaia, scatenando un grido di orrore: “Il fratello trafigge la sorella!” Così, la pietà di Venere si trasforma nella triste mattanza di Marte. Orazia, colpevole di piangere il suo sposo, uno degli albani il cui cadavere giace insanguinato sul campo di Marte, si accascia al suolo, sposa nella sciagura dell’amato “nemico”. Il fratello è accusato di avere ucciso la sorella. Nell’apparente conflitto si riverbera il nocciolo simbolico della fondazione di Roma. Tutti i Romani come Orazio discendono da Marte, padre di Romolo, tutte le Romane come Orazia provengono da Venere, madre del troiano Enea, dal cui figlio Julo trae nome e origine la gens di Alba, il ceppo dei “fondatori”che da Romolo giunge fino a Cesare. Marte e Venere, lo strano binomio della forza- violenza e della pietas-perdono che esprimono però una realtà duale, un doppio che si rovescia l’uno nell’altra. Tutte le Romane come Orazia sono mute al pari di Lavinia, fanciulla esclusa dal circuito della parola, ma che reagisce con il rossore e il pianto di fronte all’intenzione di Turno di battersi con Enea e alla disperazione della madre Amata che piange il tramonto del suo popolo selvaggio. La morte della madre è il passato di Lavinia, l’uccisione del promesso sposo Turno è già il suo futuro. Ma ciò che rende eroica l’opzione taciturna di questa regia filia di Alba è la sua scelta per la vita, ciò che rende possibile la storia e la grandezza futura dell’Urbe. Orazia irrompe con il suo disperato cordoglio, sconvolge l’unanimità appena ritrovata del molteplice. Il suo lutto è deplorevole, è una contraddizione di cui occorre cancellare le tracce, le calde lacrime la calano nella gelida fossa della fondazione, quel mundus infestato da divinità telluriche che salva all’occorrenza la comunità dalla rappresaglia divina, acquietando il tumultus , mettendo al riparo dalla crisi. Orazia è un pharmakos , la medicina che banalmente serve a quietare gli animi, il prezzo del riscatto accordato agli dei affinché il sangue dei Curiazi non ricada come una maledizione perpetua sull’intera comunità. La Terra è una curiosa sfera che oscilla come una foglia instabile e il cosmo è propriamente l’equilibrio che l’uomo attua nello scambio con il divino, ciò che assicura temporanea stabilità e fornisce un punto d’appoggio che rinsalda, in accordo con l’illusione di dèi, la cui invidia e violenza giustifica la frenesia del contagio violento contro qualcuno, la cui espulsione o messa a morte consente di ristabilire l’ordine, riscattando al prezzo della vita di uno solo la momentanea stabilità dei molti , degli insiemi. Solo ora Orazio comprende che non esiste alcun compromesso possibile fra uccidere ed essere ucciso, ora sa che tutti possono ucciderlo. Egli è un semi-dio perché ha salvato la comunità dal predominio albano, ma come Remo é un capro-lupo, empio e fratricida e deve perciò essere sottoposto al giudizio a causa della trasgressione che l’ha portato oltre il limite.  Il podio sul quale Orazio si erge é quello dal quale svettano solo coloro che sono odiati e al tempo stesso venerati. Venerati, non amati. La venerazione nel cosmo panteista rende omaggio ad un oggetto sacro, ad una persona che diviene oggetto d’idolatria e venerazione. L’oggetto su cui il desiderio fissa lo sguardo é qualcosa con cui non si entra mai in relazione. Venerare ha perciò la stessa radice del nome Venus , dea dell'amore, ma la forza generativa che suscita ha ben altro significato, perché si rovescia nel suo opposto mostruoso e quando è rovesciata esprime odio. Nel mito perciò i mostri hanno tutti un difetto alla vista, vedono male e vedono doppio. Quando nel circo si aprono i giochi, lo spettacolo degli sguardi converge sulla terribile danza che è l’agonia di uno schiavo che porta la colpa e mette in scena la pantomina reale della maledizione dell’essere uomo davanti a Iuppiter. La folla assiepata sulla scalea non si sforza di capirlo, si trasforma in una belva feroce che scaglia“pietre”, ma come tutti i mostri vede male e ciò che perde di vista è quello che non vede di sé, perché è lei stessa una pietra che costruisce questa cosa ottusa, grezza, terribile. Il furore di cui Orazio deve farsi carico per portare a termine le imprese collettive della sua Città comporta perciò una pericolosità per sé e per gli altri, una hybris di cui non è poi tanto facile disfarsi. Accade anche a Ercole di ritorno dalle sue fatiche di essere preda di un attacco di follia che causa lo sterminio dell’intera famiglia, moglie e figlioletti e solo quando torna padrone di sé sprofonda nella più totale disperazione, decidendo di ritirarsi a vivere in solitudine in un territorio desolato. Essere toccati dalla violenza e provare a dominarla significa entrare nel suo circuito perpetuo ed esserne assoggettati, consacrarsi a Marte, nutrirsi delle messi del suo farro, quel raccolto letale che cresce nel Campo Marzio e che i Romani colgono ma solo per gettarlo nel fiume con un rituale, perché nutrirsi di quelle messi vorrebbe dire collocarsi già sul fondo di quel fiume. In questo lontano arcaico, grezzo ed essenziale, non c’è traccia mistica della brutalità. Ciò che spinge le comunità verso la violenza, quale ente generatore di distruzione trascendente, non è la volontà di unirsi ad una divinità distruttrice. Diversamente da ogni mistica moderna ispirata deliberatamente all’abisso sacrificale dionisiaco in chiave anticristiana, la religione arcaica e la trasformazione di tale trascendenza violenta in un sistema culturale e “politico” rifondato, non puntano a creare unione con la divinità dissolutrice, come avviene in epoca nichilista fuori dalle categorie del sacro, bensì a tenerla a debita distanza, utilizzando la violenza per preservare la comunità dalla distruzione.  La violenza è interna alla comunità ma si esprime come illusione di una polarizzazione che si colloca fuori e assume il volto di una divinità che reclama il sangue dell’uomo. Non può essere ammessa nello spazio dell' Urbe che il nomos ha originato e ancora non si proietta oltre il suo confine con la Civitas. L’instabilità violenta origina nuovi equilibri della storia, ma non può che essere bandita dall'ordine costituito, anche se appartiene alla dimensione del sacro e il sacro con la sua ambigua indifferenziazione è un’unica e medesima cosa con la violenza che impone rapporti doppi e simmetrici, mostri a tre teste che si fronteggiano come belve disumane. L’eroe si lascia invadere da questa forza , ma non partecipa già più del nuovo ordine, è fuori della comunità, appartiene alla divinità oltraggiata, anche se al tempo stesso è depositario del destino della comunità che da lui fa dipendere la stabilità interna, la sua stessa sopravvivenza. Orazio è un meraviglioso eroe, ma al tempo stesso non può che essere un orribile assassino, un mostro senza pietà che distrugge nella sorella, nel suo stesso sangue, la personificazione della pietas , la sua stessa umanità. Egli riassume fatalmente su di sé l’illusoria ambivalenza del sacro arcaico. È la belva feroce cui la comunità affida il proprio destino, dotandolo di prerogative divine, è perciò come Remo un lupo empio e selvaggio, come Marte é uno “sterminatore di eroi”. Orazio è quel tipo di eroe dotato di prerogative straordinarie, un dio e un lupo insieme. Ma in realtà l’opposto del lupo non è affatto un dio, bensì un altro lupo, un gemello contro l’altro, perché l’opposizione nel campo di Marte è solo l’indifferenziazione della violenza, una zona grigia dove vige la cattiva reciprocità simmetrica che si esprime colpo su colpo. Il pelo rovesciato del lupo, che dentro rimane pelo e lupo, anche se nascosto dal rovesciamento. Accusato di perduellionis – lesa maestà, sovversione dell'Ordine costituito – Orazio deve subire la pena dell’arbor infelix ed essere suspensus al ramo rinsecchito e malaugurato per essere fustigato, fino alla morte. L’albero infelice, antesignano della croce, è in analogia con il limes, una sorte di confine reale e simbolico fra il villaggio urbano e la selva, come il muro del pomerium che é sotto la potestà degli dei degli inferi e di Fauno. E’ un arbusto maledetto come il colpevole al quale s’infligge la pena con il capo velato. Solo a questo punto interviene il re Tullo Ostilio, il quale concede alla gens agli Orazi di ricorrere alla provocatio ad populo. I rituali di consacratio ed espiazione prevedono una partecipazione popolare al giudizio. Si torna alla scena ed è ancora la turba la protagonista reale della vicenda. Il popolo al tumulto si pressa intorno all’eroe-malfattore, si dispone in cerchio, l’assembramento ricorda il linciaggio che la folla si appresta a compiere. Solo l’arringa del pater familias consente a Orazio di riprendere la via dell’Urbe, sebbene come uomo diminuito che dovrà sottostare al giogo di un travicello messo di traverso sulla sua strada per mantenere il ricordo della sua colpa. Orazio si salva, non muore. Il pater che rappresenta la comunità riunita, il popolo delle Trenta curie romulee, decreta che Orazia è stata legittimamente uccisa e deplora pubblicamente il comportamento della figlia che ha infranto una regola comunitaria. Il potere di morte dei padri sulle figlie femmine è una consuetudine confermata dalla realtà storica più arcaica (Regine Pernoud). Ma l’accaduto é deplorevole, perciò si dispongono atti espiatori riparatori, cui la famiglia degli Orazi dovrà provvedere. La storia è una rappresentazione che mostra i protagonisti in azione, il coraggio dei giovani campioni del duello, lo strazio della sorella, l’arringa patetica del pater. Il molteplice rimane invece impercettibile, opaco e dissimulato, non compie un vero moto, non ha un’azione propria. Esiste solo come sguardo che converge sulla rappresentazione e getta un occhio sporco nel punto focale dove il “fratello” assume su di sé ora la parte leggendaria, ora quella della canaglia e la “sorella” che esplode nel pianto è la vittima sostitutiva. Orazio salva la collettività, ma è anche l’omicida che agisce in nome e per conto della comunità. Mentre nel Vangelo la folla al cospetto di Pilato che reclama la morte di Gesù si mostra per quello che è veramente, una molteplicità ondivaga, contagiata da meccanismi mimetici, la prospettiva mitica misconosce al molteplice questa funzione, rende esplicito solo l’effetto delle sue azioni, il contagio dell’eroe, la sua hybris, in definitiva l’ accusa della sua colpevolezza che giustifica la risoluzione sacrificale.  In cosa consiste la differenza fra le due prospettive? Il mito elabora degli avvenimenti reali, ma li reinterpreta, scagionando da ogni responsabilità il collettivo. L’eroe-vittima contaminato dalla violenza è accusato dalla comunità per la sua dismisura e scampa al suo stesso sacrificio, macchiandosi di una vittima palesemente innocente, sua sorella Orazia. Il meccanismo del capro espiatorio, tanto esplicito nelle letture testamentarie (*) è sistematicamente dissimulato nel mito e con esso il comportamento realmente criminale della folla che si agita in preda ai molteplici desideri che costituiscono una forza unanime e terribile. L’eroe in definitiva è il depositario di questa forza collettiva dalla quale è posseduto ma da cui può essere distrutto. Orazio non detiene perciò una forza sua, né la detiene in senso astratto. Il suo potere non si basa su un teorico contratto sociale. Esercita la forza nel campo del reale, polarizza l’energia di tutti, attrae su di sé i desideri e le trasgressioni di tutti, possiede nella mano questo nodo, il potere e la forza , ma al tempo stesso il nodo è posseduto dai suoi linciatori, coloro che lo consacrano nella violenza al prezzo della sua stessa vita. L’elevazione di Orazio a eroe mitico più che un mito è un rito, i cui effetti sono solo attenuati dal Diritto. Roma è del rito, Alba è del mito. Roma demitizza il suo Pantheon ed è la terra della fondazione che si oppone alla riva del fiume e bagnandosi si rende fertile. Alba, la bianca, è l’essenza della natura che produce capi selvaggi che fatalmente scompaiono nei flutti del fiume, principesse violate che svaniscono nelle acque tremule dei suoi laghi circolari sul cui fondo giacciono verità nascoste. Roma cerca le sue origini perdute e le intreccia con la realtà storica, è per questa via che l’Urbe genera saghe e leggende, ma non miti. Orazio é un eroe-vittima, un essere glorioso ma anche una vile canaglia. Come Romolo è un fratricida, come Remo è un empio. E’ l’assassino di sua sorella, una fanciulla colpevole di amoreggiare con il suo sposo albano. Il diritto infine acconsente al passaggio che immette nella città mediante la porta schiusa di Giano Quirino e da quella porta il tragico corteo mestamente rientra in città. Tutti tornano a casa, tutti ad eccezione di Orazia che giace nella gelida fossa espropriata alla terra che accorda così la nuova fondazione. La fondazione si ripete con una nuova fondazione, al costo della vita di Orazia che si spegne nei pressi della Porta Capena. Alba, mater urbis, non conosce più il tempo, è lo spazio indeterminato dell’origine, il luogo ormai senza forma ed estraneo alla storia. Alba ha solo il mito, il tempo che la separa dall’origine produce un’apparenza bugiarda, un’immagine menzognera, un inganno omicida. Roma inventa il tempo storico. Due città, madre e figlia, due ipotesi contrapposte, necessariamente complementari, perché l’uomo non vive nella natura, vive nella storia. Sarà la Rivelazione cristiana a dire che la storia che si afferma non è altro che il mito nascosto che l’uomo vede sdoppiato. Ma il Dio cristiano non è un doppio, la natura umana e la natura divina sono unite nella persona del Verbo senza confusione, né separazione. La potenza divina si manifesta nella Misericordia, un tipo di conoscenza che contiene anche l’odio e l’imperfezione, perché li ha assunti su di Sé come rischio, il rischio della Croce.

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