sabato 24 maggio 2014

Dalle barricate al romanzo: quando l'impegno politico dei rossi e dei neri prova a farsi letteratura


Annalisa Terranova

Appena finito di leggere il celebrato romanzo di Marco Montemarano, La ricchezza (Neri Pozza) sulla scapestrata e fallita generazione degli anni Settanta. Del clima di allora ci ho trovato pochissimo. Il racconto è più che altro una nostalgica esaltazione dell’amicizia totale, quasi salvifica e in ogni caso distruttiva, dove mettere radici se ogni punto di riferimento – a cominciare da quelli familiari – vacilla. 


E' ciò che accade al protagonista Giovanni detto Hitchcock, circondato da comparse irritanti per il loro vuoto interiore e la loro vocazione all’egoismo solipsistico.
Ci sono altri romanzi che su quegli anni aprono squarci interessanti. Metti insieme i flash del peregrinare furente di un “compagno” all’università di Bologna nel 1977, il suo struggente sentimento per Anna, il suo spaesamento e la sua rabbia e ottieni il distillato del romanzo impegnato, il prototipo del racconto della disobbedienza civile praticata dall’Autonomia: questo è stato Boccalone di Enrico Palandri, uscito nel 1979 e di recente riproposto da Bompiani. 


Pagine dove domina la cifra dell’inquietudine, della dissoluzione, l’ansia di rimettere in ordine i dialoghi, le relazioni, gli amori. A destra, invece, in quegli stessi arrabbiati anni Settanta chi intendeva fare letteratura della propria militanza sognava il romanzo battagliero, ispirato alle pagine sulfuree di Gilles di Drieu La Rochelle (1939), il dandy aristocratico circondate di femmine e fascista per “deviazione” dalla modernità. E alla fine, molti anni dopo la prova di Palandri col suo Boccalone, è stato un ex missino convertito al marxismo, lo scrittore operaio Antonio Pennacchi, a raccontare l’adolescenza “nera” di chi sceglieva la Fiamma in una città, Latina-Littoria, che respira assieme ai ricordi del Duce. Con il suo Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi (da cui è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico), Pennacchi mette in scena con stile antiretorico, preciso e autentico, limiti e ambizioni di un nostalgismo che teneva in vita l’attivismo con la promessa della continuazione della guerra perduta. «Una domenica mattina, dopo la messa, sono andato al Msi a iscrivermi alla Giovane Italia. C’era uno di quindici o sedici anni. Io solo tredici, e avevo paura che non mi desse la tessera. Invece me l’ha data di corsa. La volevo pagare, ma me l’ha data gratis. Ci sono rimasto quasi male: era come se avessi fatto io un favore a loro, non loro a me. Gli ho anche chiesto: “Adesso che bisogna fare?”. Intendevo dire riunioni, attività, qualunque cosa. “Che bisogna fare? Ti sei iscritto. Tutto qua”». 


Il percorso di Accio Benassi è tutto segnato dall’identità di un luogo, la città costruita dove prima c’era la palude, che sovrasta ogni altra, fittizia e passeggera, appartenenza. «Per noi all’inizio il fascismo era solo Benito Mussolini, che aveva bonificato le paludi e fondato le città. Per noi ogni pietra – dalla chiesa di San Marco al palazzo del comune – l’aveva messa il Duce e la palude l’aveva asciugata tutta lui, da solo». Il personaggio di Pennacchi è rigido e al tempo stesso aperto e curioso del proprio tempo. Troppo poco obbediente per essere solo “fascista”, troppo poco conformista per essere solo “comunista”. 



A Pennacchi e a Pelandri ho guardato anche io scrivendo Vittoria, una storia degli anni Settanta (Giubilei Regnani). Vittoria è il titolo di un bel romanzo di Hamsun che ha allietato i miei giorni giovani, è un nome femminile molto suggestivo e assertivo, il nome adatto per una ragazzina fascista, ma è anche uno stato d’animo: perché se si riesce a dare un senso al passato si è sempre vittoriosi. Ma Vittoria è anche sfida a chi, quel passato, lo racconta in modo edulcorato, magari allo scopo di riesumare gli stessi inautentici conflitti.



L’attitudine alla ribellione solitaria, incompresa, c’è anche in un altro, più recente personaggio, Pasquale Benassìa, protagonista del bel romanzo di Andrea Di Consoli La collera (Rizzoli, 2012). Anche Benassìa è un fascista che conosce le durezze del lavoro in fabbrica, uno che legge Nietzsche per dare forza alla sua differenza, uno angosciato dall’idea di non riuscire in una sola vita ad eccellere come avrebbe voluto. In definitiva un disadattato. «Fascismo era un orgoglio superiore, una filosofia che gli faceva desiderare il meglio senza passare per la porta larga dell’elemosina socialista».
Ma per raccontare l’impegno, la mobilitazione, la scelta politica, un clima simile a quello narrato da Palandri nel suo Boccalone, sia pur visto dall’altra parte della trincea, bisogna guardare a titoli meno noti ma non per questo meno “istruttivi” nel rappresentare le aspirazioni della destra giovanile filtrate attraverso la “prova” letteraria. Un obiettivo centrato, ad esempio, dal giornalista Vincenzo Cerracchio con il suo romanzo Due soli (Il Filo, 2008, la storia di Marco, studente romano del liceo Tacito simpatizzante di destra, della sua passione per la Lazio e per Betta, dei fronteggiamenti in istituto, dell’uccisione di Mikis Mantakas nel 1973, della consapevolezza che il mondo infantile dei giochi si va colorando di rosso e di nero. Colori cupi che troviamo anche nel romanzo di Duccio Cimatti, Piombo (Piemme 2005), vicissitudini di un adolescente della periferia romana alle prese con le prevaricazioni dei “neri”. Cimatti ha tra l’altro uno scopo ben preciso: non se la sente, lui,  di contestualizzare, e non esita a condannare con forza chi ha intrapreso la strada del terrorismo: «C’è che non era affatto inevitabile premere un grilletto e innescare bombe, in tanti non l’abbiamo fatto. Non per codardia, o perché non ce ne fregava niente. Al contrario: volevamo di più, volevamo altro, non quello schifo di violenza e di retorica». Ambizioso e sofferto, infine, il tentativo della scrittrice e regista Cristina Comencini con il suo romanzo L’illusione del bene (Feltrinelli 2007). Fare i conti con il comunismo, da parte di chi ci ha creduto, da parte di chi ha immaginato che quell’ideologia fosse una salvifica religione civile e poi si è voltato dall’altra parte, senza “elaborare il lutto”, ma solo operando rimozioni. Quelle che il protagonista del romanzo, Mario, non può più inseguire nel momento in cui l’incontro con Sonja, figlia di una dissidente russa, lo porta a scavare negli archivi dell’orrore dell’ex Unione sovietica. Uno specchio dove molti comunisti “pentiti” non hanno mai voluto vedere il proprio tormentato riflesso.


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