Francesco Pullia
Dopo quattro
splendidi cd, Tibetan prayer (1995), Tibet,Tibet (1996), Coming
Home (1998) e Ama (2006),
incisi per la Real World di Peter Gabriel, la compositrice e cantante tibetana
(è nata a Lhasa nel 1966 ma dal 1989 è stata costretta a vivere in esilio,
prima in Australia, poi negli Stati Uniti) Yungchen Lhamo torna con un nuovo
lavoro realizzato insieme ad Anton Batagov (Mosca, 1965), considerato “il Terry Riley russo”, musicista
post-minimalista (ma anche sensibile interprete ed esecutore di autori
classici) voltosi da tempo al buddhismo.
In Tayatha,
opera di rara bellezza e intensità, permeata dall’inizio alla fine di
struggente poesia, si riscontrano i temi che caratterizzano il discorso
espressivo dell’artista: la nostalgia e la preoccupazione per la tragica
situazione in cui, a causa della dominazione cinese, dal 1950 versa il suo
popolo, il retaggio culturale millenario, la religiosità buddhista, la
devozione nei confronti della figura materna, la speranza che, prima o poi, il Paese delle nevi riesca
ad affrancarsi dalla morsa sanguinaria del regime di Pechino.
Abbiamo appena
accennato al sentimento di gratitudine e profondo amore nutrito da Yungchen
Lhamo per la madre. Ama (in tibetano “madre”), il disco precedente,
costituiva il tributo di una figlia per una donna che ha patito l’occupazione
cinese, perso il padre e il marito per le violenze e le persecuzioni, visto
morire bambini per fame nei durissimi campi di concentramento comunisti dove è
stata detenuta e torturata. Eppure, ricordava la cantante, nonostante le
inenarrabili sofferenze provate, “in
mia madre non hanno mai albergato sentimenti di rabbia e vendetta”.
Anche in Tayatha
(dal sanscrito, “È come questo”,
con allusione al mantra del Buddha della medicina, “Tayatha om bekandze bekandze maha bekandze radza samudgate soha”)
aleggia la presenza-assenza della madre, in modo particolare negli oltre dodici
minuti del delicatissimo, evocativo (come, d’altronde, tutto il cd), trasognato
My mother’s words (“Le parole di mia madre”). “Mamma”, canta Yungchen Lhamo, “mi hai insegnato amore e tenerezza e tua figlia serberà nel cuore
questa lezione (…) Mamma voglio
spartire con te queste parole che tengo nel mio cuore, ma adesso che sei andata
via, non c’è nessuno che possa ascoltare quanto ho da dirti. Non sentirti sola, tu non sei sola. Ciao,
bellissima, apri gli occhi. Molte cose buone ti circondano”. Toccante,
apparente esile, la voce, sul tessuto sonoro del piano di Bagatov, produce un
effetto straniante. Giunge come da un’altra dimensione e, volteggiando a mo’ di
piuma, sfiora l’animo aprendolo ad orizzonti introspettivi. Non a caso dopo Good
times will come e Medicine Buddha, c’è Flying Dakini. Gli
spiriti buddhisti femminili (le Dakini appunto) arrivano in volo per mettere in
moto energie e rivelarci che il vuoto, l’impermanenza sono sottesi ad ogni
aspetto della vita. Segue Ungrateful child (“Figlio ingrato”), brano di
nove minuti sulle giovani generazioni di oggi che, interamente fagocitati dal
materialismo della tecnologia, finiscono per dimenticarsi troppo facilmente
dell’insegnamento dei loro genitori. Il riferimento allo stravolgimento
culturale e di costumi attuato in Tibet dal colonialismo cinese è palese. Per
fortuna, però, dice Yungchen Lhamo, non tutti sono così, c’è ancora qualcuno
che comprende quanto il potere dell’amore sia più forte e importante delle
sirene del denaro. Nei sedici minuti del successivo incantevole e incantatorio,
quasi ipnotico, Your kindness (“La tua gentilezza”) insiste: “È meglio donare che ricevere”. Dal seme
di questa verità è possibile concepire un nuovo mondo.
In White Palace (7:39),
penultimo pezzo, prima di My mother’s words su cui ci siamo già
soffermati, si fa un parallelo tra il Potala, l’imponente palazzo dove, prima
dell’avvento del comunismo cinese, risiedeva a Lhasa il Dalai Lama, e la Casa
bianca statunitense. Da un lato, c’è il ricordo per la terra lasciata,
dall’altro, il sentito omaggio da parte dell’esule per la terra che la ospita. Tayatha,
non c’è che dire, è un disco imperdibile che invita a meditare, con la sua
impronta spirituale, i suoi slanci mistici.
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