Francesco Pullia
Il processo a Xu
Zhiyong, svoltosi a Pechino nello stesso posto dove nel 2009 si celebrò il
processo a Liu Xiaobo, si è concluso senza una sentenza definitiva anche
se, al termine della sua requisitoria, il pubblico ministero ha chiesto una
pena severa. Attivista cinese per i diritti civili, in un
articolo intitolato “Tibet is Burning”
, pubblicato nel dicembre di due anni fa dal New York Times ,
Xu Zhiyong aveva raccontato le difficoltà che aveva incontrato per esternare ai
familiari di Nangdrol, uno degli autoimmolati tibetani, le proprie
condoglianze: “Mi dispiace constatare
– aveva scritto – che noi cinesi “han”
restiamo in silenzio mentre Nangdrol e i suoi compagni tibetani stanno morendo
per la libertà. Siamo noi stessi delle vittime in quanto ci estraniamo, non
lottiamo, coltiviamo sentimenti di odio e distruzione”. Xu Zhiyong, che
nel 2012, assieme ad altri cinque attivisti, aveva lanciato il Movimento dei
Nuovi Cittadini, era nel mirino della polizia cinese per “riunioni di gruppo e disturbo dell’ordine in
luogo pubblico”.
Fuori dal palazzo,
sostenitori del dissidente sono stati fermati e trattenuti in custodia mentre i
reporter della BBC e della CNN, che trasmettevano in diretta, sono stati
strattonati e malmenati.
In Tibet, invece,
oltre quattrocento tibetani, tra i quali sessanta monaci, hanno inscenato
recentemente una manifestazione silenziosa per chiedere la liberazione di
Khenpo Kartse, l’abate trentottenne del monastero di Jhapa, arrestato il 6
dicembre scorso mentre si recava a Chengdu perché sospettato di “attività contro lo stato”.Conosciuto
anche come Karma Tsewang, Khenpo Kartse è conosciuto per l’incessante impegno
in campo sociale e per l’attività a sostegno della salvaguardia della lingua,
della religione e della cultura tibetana. Nei giorni successivi al suo arresto
sonoi stati trattenuti altri ventuno tibetani, compresi sedici monaci, che
avevano chiesto la sua liberazione. Interrogato il 31 dicembre, Kartse aveva
fatto sapere di non avere subito torture.
L’organizzazione Free Tibet è riuscita a fare trapelare la notizia che il
tribunale supremo della cosiddetta Regione Autonoma Tibetana intende colpire
duramente coloro che sono sospettati di “sabotare
e minacciare la sicurezza nazionale”. Sono state istituite forze
speciali per combattere le “organizzazioni
clandestine” che si giovano dell’”influenza
religiosa”.
Il Centro tibetano
per i diritti umani e la democrazia (TCHRD) ha pubblicato il rapporto annuale
per il 2013 sulla situazione dei diritti umani in Tibet. Una speciale sezione (Gulags of Tibet) è dedicata
all’analisi del sistema della “rieducazione
tramite il lavoro” imposto dai cinesi. Viene inoltre esaminata in modo
esaustivo la questione del trasferimento della popolazione nomade. A questo
proposito, si afferma che i nomadi tibetani sono stati in gran parte obbligati
“a lasciare le loro terre d’origine e
trasferiti in aree urbane contro la loro volontà e senza adeguate misure di
compensazione: ricevono molto meno dei migranti cinesi in termini di sussidi e
non vengono aiutati nella ricerca di un lavoro”. Secondo il TCHRD la
politica dei trasferimenti ha il suo fondamento nel desiderio del governo
cinese di sfruttare le ricche risorse minerarie reperibili nei territori dei
nomadi. “Le compagnie minerarie statali”
– si legge – “hanno già iniziato ad
estrarre dalle aree storicamente abitate dalle popolazioni nomadi minerali
preziosi quali il litio, il rame, l’oro e il petrolio”.
Il rapporto denuncia
inoltre la violenta repressione di ogni forma di manifestazione pacifica, le
detenzioni arbitrarie, le limitazioni alla libertà di movimento e le vessazioni
a danno degli artisti e degli intellettuali. Molte delle direttive politiche
attuate dalla Cina hanno provocato danni irreversibili alla cultura e
all’ambiente del Tibet. Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia
rende noto che in Tibet ci sarebbero 896 prigionieri politici e che nel 2013
sono stati arrestati e condannati 119 tibetani. Dal 2009 si contano 125 casi di
autoimmolazione, di cui 27 nel solo 2013. “I durissimi interventi contro gli autoimmolati e i loro familiari e
amici non hanno tuttavia prodotto i risultati sperati: anziché generare armonia
e stabilità, la repressione non fa che rinfocolare il risentimento dei tibetani”.
Intanto,
qualche giorno fa, nella città indiana di Guwarati, nello regione dell’Assam,
dove si era recato per presenziare all’inaugurazione del primo festival di
cultura tibetana, Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, ha detto che saranno i
tibetani a decidere se l’istituzione del Dalai Lama dovrà proseguire e se il
lignaggio potrà essere detenuto da una donna.
Parlando
a centinaia di devoti arrivati dall’Arunachal Pradesh, dal Buthan, dal Mustang
e dal Nagaland, il Dalai Lama ha affermato: “Alla mia morte si presenterà la questione della ricerca del prossimo
Dalai Lama: se il popolo tibetano non la ritiene più necessaria, questa
tradizione potrebbe essere abolita, non vi sarebbe nulla di strano, mantenerla
o no dipende dalla volontà del popolo tibetano”. A chi gli ha
chiesto se in futuro sarà possibile il riconoscimento di un Dalai Lama donna,
il leader spirituale tibetano ha così risposto: “Certamente! Se le circostanze esigeranno il riconoscimento di una donna
da parte della maggioranza dei tibetani, non vi sarà alcun problema”.
Scherzando, ha soggiunto: “Il Dalai
Lama donna dovrà essere molto attraente: questo farà sì che molte persone
verranno ad ascoltarla!”.
Il premio Nobel per la pace
ha affermato di essere contrario alla designazione del nuovo Dalai Lama secondo
il metodo tradizionale e al conferimento dei poteri politici alla sua persona o
ai suoi successori. “Nel 2011 ho
rinunciato al potere politico – ha ricordato – e nel futuro il Dalai Lama non avrà alcuna autorità in questo campo ma
sarà solo la guida spirituale del popolo tibetano”.
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