Finché le cose sono a disposizione non ti accorgi di quanto potrebbero mancarti. Una sensazione che coglie il lettore che sfoglia il Nuovo dizionario delle cose perdute di Francesco Guccini (Mondadori) dal quale è tratto brano che riproduciamo:
Quando le cabine telefoniche apparvero, fui sommessamente felice. Eleganti, verniciate di rosso, piene di vetri, sembravano la copia delle loro sorelle viste in tanti film inglesi o americani. E noi niente? C'è una bella differenza tra l'entrare in un bar, chiedere uno o più gettoni, attaccarsi al telefono a muro e lì cercare di parlare tra il vocìo della gente - "un caffè con latte freddo, grazie"- o fiondarsi in una cabina, chiudere la porta e là, isolati dal mondo, chiamare chicchessia.
Lo ammetto, sono di una generazione che è stata pesantemente influenzata dal cinema. Chi di noi non ha fantasticato di entrare in una cabina telefonica, magari sotto un rovescio di pioggia incessante, ruscellante d'acqua, comporre il numero e sussurrare: "Baby, ti chiamo da una cabina perché il mio numero è controllato dalla polizia. Sono braccato, baby, è la fine, ma se quello che mi hai detto ieri notte ha un briciolo di verità. puoi raggiungermi nello chalet sul lago che sai. Se no, addio"... Oppure, arrivare trafelato alla cabina mentre un'anziana signora sta dilungandosi in un'interminabile telefonata, fare irruzione, scansarla con violenza gridando: "Mi spiace buona donna, ma è questione di vita o di morte" e beccare in tempo la telefonata del vile ricattatore che dice: "Bravo John, ci sei. Adesso vai in piazza Lafayette, c'è una fontana, vicino c'è un bidone per l'immondizia. Dentro troverai le nuove istruzioni. Hai dieci minuti di tempo". E così via con l'immaginazione. Anche se magari la conversazione media era poi sul tipo: "Ciao Gigi, sono Ciccio, vieni al cinema stasera?" o cose così.
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