Federico Magi
Era l’inizio
dei Sessanta, e il Greenwich Village era il cuore pulsante di una Grande Mela
in cui Bob Dylan muoveva i primi passi di una carriera straordinaria. Ma per un
Bob Dylan che si apprestava a diventare una stella luminosa del panorama
cantautoriale d’America, c’erano tanti folksinger destinati a rimanere
nell’oblio, per i quali le grandi aspirazioni erano destinate a infrangersi
contro la dura realtà delle leggi del mercato discografico. A una di queste
volatili e malinconiche figure, i fratelli Coen hanno dedicato la loro ultima
opera cinematografica, un’intima ballata che regala ai loro affezionati
spettatori un nuovo personaggio destinato ad entrare nell’immaginario del loro
strano e bizzarro mondo.
Siamo nel
Greenwich Village, come detto, nel 1961, e il panorama della musica folk non è
mai stato così esplosivo e fervido di novità. Tra i tanti musicisti in cerca di
fortuna, disposti a vagare senza una fissa dimora e con rinnovate aspirazioni
per il futuro c’è Llewin Davis, trentenne dotato chitarrista che si esibisce
nei locali newyorchesi e che passa le notti sui divani di chi è disposto ad
ospitarlo. Girando col suo strumento, i vestiti che ha indosso e uno scatolone
di dischi pubblicati ma invenduti, Llewin porta avanti con fatica la sua
carriera da solista, dopo la scomparsa dell’amico e collega con cui aveva
formato un duetto che aveva pur ottenuto qualche piccolo successo. Gira tra New
York e Chicago, sperando che la vita gli conceda quell’occasione che gli
consenta di vivere di musica. Ma tra strani incontri e improbabili
compagni di viaggio (tra i quali anche un gatto), si renderà conto che far
fortuna con la sua musica è davvero una missione impossibile.
I fratelli
Coen tornano a cantare gli spiriti solitari d’America, raccontandoci un’epoca
di attesa e speranza a cavallo tra crudeltà e bellezza, filtrando il tutto
attraverso gli occhi di uno strampalato protagonista che sembra subire i
rovesci della sorte con una certa noncuranza e un'improbabile leggerezza, come
consueto al loro cinema, ma tradendo una malinconia di fondo che lo rende a
tutti gli effetti uno dei loro figli più riusciti, privo di quel fascino che
contraddistingueva Drugo Leboswky, ma molto più vicino Barton Fink o al protagonista
di A serious man.
Nonostante una vicenda che, nel loro stile, vira nel grottesco e nei momenti
ilari, il retrogusto malinconico e a tratti cupo e pessimista di A
proposito di Davis si fa più percepibile col procedere della storia,
seguendo le sorti di un personaggio in parte vittima della sfortuna, di sé
stesso, del suo carattere e dei suoi modi non proprio accomodanti, e in parte
del sogno americano, sempre evocato, immaginato, braccato, ma sempre sfuggente,
precario e irraggiungibile, nonostante le promesse di rivoluzione e cambiamento
– di un posto al sole per chi prova ad inseguire le sue velleità artistiche -
degli anni Sessanta.
Ottima la
rievocazione storica, che restituisce perfettamente le atmosfere del Greenwich
Village con i suoi musicisti in cerca di sogni di gloria destinati a
confrontarsi con una realtà spesso avara di soddisfazioni. Credibile e calzante
il protagonista scelto dai Coen, un Oscar Isaac che recita mantenendo la misura
del suo personaggio; buone le prove anche di Carey Mulligan e Justin
Timberlake, coppia sulla scena; note di merito per l’apparizione di John
Goodman, in un ruolo sopra le righe che gli calza a pennello e F.Murray
Abraham, che nel suo breve ingresso in scena sentenzia in qualche modo la morte
delle aspirazioni di Llewin. Ma la vera protagonista, in A
proposito di Davis, è quasi scontato rilevarlo, è proprio la musica, le
tante ballate folk che i Coen ci propongono coraggiosamente nella loro
interezza, cantate in maniera magistrale dagli stessi attori sulla ribalta
(brillantemente supportati dal lavoro musicale di T-Bone Burnett); una colonna
sonora spesso in campo ma che non ruba la scena ai protagonisti ed anzi lega
perfettamente i gesti all’atmosfera, mai dando il senso d’invadenza ed evitando
così ogni possibile sovraccarico di pathos.
Tutto
fluisce armoniosamente, nell’opera dei fratelli di Minneapolis, tanto
armonicamente che si segue una storia intima di un personaggio qualunque in una
vita qualunque. E qui c’è il grande pregio dei Coen, come avvenuto in altre
importanti pellicole (in particolare, a preferenza di chi vi parla, L’uomo che non c’era), quello di
rendere importante, grazie al cinema, ciò che probabilmente raccontato in altra
forma non lo sarebbe affatto, creando un nuovo antieroe da inserire nella loro
folta galleria di antieroi da ricordare. Il tutto sempre affidandosi a una
regia e a un montaggio degni del loro nome, a una struttura filmica che porta
lo spettatore per mano senza apparenti sussulti ma grazie a una potenza
geometrica delle immagini e di una storia che chiude in maniera circolare, con
una sequenza emblematica della vita di Llewin Davis che si fa paradigma di
tutta la sua storia. Una storia intimista, ispirata in parte al memoir del folksinger Dave Van Ronk,
che riesce a suscitare interesse nonostante il suo andamento lento, proprio
perché raccontataci dai Coen.
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