martedì 29 luglio 2014

La storia del Secolo d'Italia. Quando arrivò l'annuncio che il fascismo era il "male assoluto"




Annalisa Terranova

Il rapporto tra un certo elettorato di destra e il fascismo è ancora irrisolto. Perché, se tu per mezzo secolo senti questo dovere di difesa a oltranza di un certo periodo alla fine non sei credibile come interprete storico. Sei un fideista. Come i carabinieri: fedele nei secoli. Questo spicchio di elettorato post-missino si va esaurendo ma non viene meno la tendenza antropologica di fondo che vi si manifesta: avere una propria età dell’oro da contrapporre alla miseria dei tempi presenti. Il fascismo, appunto. Tutto ciò è sicuramente marginale rispetto all’avanzare inesorabile della storia e al lavoro della memoria che ne consegue: io ho sempre pensato che la storicizzazione del fascismo l’hanno fatta gli storici e non certo Gianfranco Fini. Quella fatta dagli storici era inevitabile, quella fatta da Fini poteva essere fatta meglio. In ogni caso, vista dall’interno del Secolo d’Italia, assume una coloritura diversa, molto più banale, rispetto al significato che in genere viene attribuito a quegli “strappi”. La frase sul male assoluto, per esempio. Fu pronunciata nel 2003 se non ricordo male. Al Secolo era una ordinaria giornata di routine.  Il leader era in viaggio in Israele ma non aveva con sé un redattore del quotidiano di partito. Noi usavamo l’Ansa per scrivere i servizi su quel viaggio. E a un certo punto l’allora capo del servizio politico si accorge del guaio e strilla: “FINI FASCISMO MALE ASSOLUTO”. Era un flash d’agenzia. L’annuncio coglie tutti di sorpresa e tutti andiamo a cercare sul computer l’agenzia-choc. La troviamo. La leggiamo. Io provo a dire: aspettiamo il secondo lancio per capire bene che voleva dire. Il secondo lancio conferma. Voleva proprio dire quello, anche se la semplificazione giornalistica ci ha messo del suo (voleva dire cioè che se un’ideologia conduce allo sterminio di un popolo è il male assoluto). Fini aveva appena visitato lo Yad Vashem. Non una cosa da nulla. Si confrontava con una tragedia così profonda che forse non c’era modo di fare gli opportuni distinguo. La redazione rumoreggia. Risate sarcastiche accolgono quella valutazione. C’è pure chi vorrebbe avere l’ardire di ragionarci sopra. Flavia Perina, all’epoca caporedattore, richiama tutti all’ordine: “Ma dico, a Fiuggi non c’eravate? Non vi ricordate? Vi siete già dimenticati che tutti hanno alzato la manina per rivalutare l’antifascismo?”. Le proteste si spengono in un borbottìo di fondo. Il giorno dopo sul Secolo quella notizia non ci sarà. Mi ricordo di avere pensato: meno male che mio padre è morto. Mi ricordo che mi arrivò la telefonata di una collega di Repubblica, era Concita De Gregorio. Mi fa: “Mi hanno detto di parlare con te che sei una voce critica verso Fini…”. La cosa mi indispettisce: “Ma come – le rispondo – qua c’hanno tutti due o tre pennacchi a testa e devo parlare io? E che peso ha quello che ti dico io?”. E lei: “Ma tu sei d’accordo? Tu pensi che il fascismo sia il male assoluto?”. “Ma no, ma no che non sono d’accordo, ma guarda che non puoi fare un pezzo così, su chi è a favore di Fini e chi è contro, tutti sono contro ma non lo diranno mai”. “Tutti chi?”. “Tutti, tutti, questa fuoriuscita dal fascismo Fini la sta facendo in solitudine, è chiaro?”. “Sì ma voi che pensate del fascismo?” “Ma voi chi?” “Voi, voi di An”. “Non pensiamo niente. Fino al ’95 si poteva parlare benino del Duce, dopo il 95 si doveva dimenticare il Duce, ora se ne deve parlare male, ma non è una cosa seria dai…”. Di quella conversazione su Repubblica non uscì nulla. Come io le avevo detto, infatti, doveva parlare con un nome pesante, non con me che non contavo niente. Non trovò nessuno disposto a fare dichiarazioni.  
Poi ci fu la convention di Francesco Storace all’Hilton di Roma. Pienone. Rabbia. Io c’ero. E pensavo che sarebbe stata la volta buona per far nascere finalmente una corrente d’opposizione a Fini dentro An. Invece no, perché Storace e Alemanno erano troppo occupati a fare opposizione l’uno all’altro. Comunque al Secolo mi permisero di fare un risicato resoconto della manifestazione, tagliando ovviamente i passaggi più critici verso il leader di An. Mi ricordo che Il Riformista ironizzò su quel pezzo: al Secolo conoscono la libertà di stampa, scriveva all’epoca Il Riformista, e la esercitano per difendere il fascismo che quella libertà aveva soppresso.

Oggi, fuori dalla ricerca storiografica che continua ad approfondire aspetti interessanti e inediti del fascismo visto nella sua complessità di fenomeno storico, il Ventennio è divenuto puro merchandising che ha a Predappio il suo crocevia folkloristico. L’approccio superficiale della destra al fenomeno non è cambiato, anzi si è cristallizzato in quattro o cinque battute non esaltanti che Silvio Berlusconi ha dedicato al tema. Il cognome Mussolini è una specie di marchio (e non mi metto qui a parlare di chi su di esso ha costruito la propria fortuna politica). L’immagine di Mussolini attira l’attenzione quanto il sedere di Belen. Rispetto a tutto ciò la destra avrebbe il dovere di un approccio critico. Avrebbe dovuto avere la forza di costruire negli anni un solido punto di riferimento per lo studio del fascismo. Invece dopo le rimozioni forzate siamo arrivati agli auguri al Duce (a 131 anni dalla nascita) sul Secolo online. Il rischio è quello che tocchiamo con mano: tagliati fuori  dal dibattito serio sul fascismo, tagliati fuori dalla storia di quella che viene considerata la vera destra italiana (che comincia con Cavour e finisce con Monti) come dimostra l’ultimo libro di Antonio Polito che, interrogandosi sulla mancanza  della destra in Italia, evita proprio di citare Msi e An. La nostalgia per il fascismo è finita. Non è più spendibile neanche elettoralmente. Neanche i reduci ce l’hanno più. Ogni tanto sento al telefono Franco Grazioli, ex battaglione Lupo della Decima. Sta scrivendo le sue. Ci siamo sentiti per il 25 aprile. Lui ha detto: basta guardare indietro, basta con queste rievocazioni, era la nostra guerra non quella di chi è giovane oggi. Una cosa molto saggia. 

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