Annalisa Terranova
Il rapporto
tra un certo elettorato di destra e il fascismo è ancora irrisolto. Perché, se
tu per mezzo secolo senti questo dovere di difesa a oltranza di un certo periodo
alla fine non sei credibile come interprete storico. Sei un fideista. Come i
carabinieri: fedele nei secoli. Questo spicchio di elettorato post-missino si
va esaurendo ma non viene meno la tendenza antropologica di fondo che vi si
manifesta: avere una propria età dell’oro da contrapporre alla miseria dei
tempi presenti. Il fascismo, appunto. Tutto ciò è sicuramente marginale
rispetto all’avanzare inesorabile della storia e al lavoro della memoria che ne
consegue: io ho sempre pensato che la storicizzazione del fascismo l’hanno
fatta gli storici e non certo Gianfranco Fini. Quella fatta dagli storici era
inevitabile, quella fatta da Fini poteva essere fatta meglio. In ogni caso,
vista dall’interno del Secolo d’Italia, assume una coloritura diversa, molto
più banale, rispetto al significato che in genere viene attribuito a quegli “strappi”.
La frase sul male assoluto, per esempio. Fu pronunciata nel 2003 se non ricordo
male. Al Secolo era una ordinaria giornata di routine. Il leader era in viaggio in Israele ma non
aveva con sé un redattore del quotidiano di partito. Noi usavamo l’Ansa per
scrivere i servizi su quel viaggio. E a un certo punto l’allora capo del
servizio politico si accorge del guaio e strilla: “FINI FASCISMO MALE ASSOLUTO”.
Era un flash d’agenzia. L’annuncio coglie tutti di sorpresa e tutti andiamo a
cercare sul computer l’agenzia-choc. La troviamo. La leggiamo. Io provo a dire:
aspettiamo il secondo lancio per capire bene che voleva dire. Il secondo lancio
conferma. Voleva proprio dire quello, anche se la semplificazione giornalistica
ci ha messo del suo (voleva dire cioè che se un’ideologia conduce allo sterminio
di un popolo è il male assoluto). Fini aveva appena visitato lo Yad Vashem. Non
una cosa da nulla. Si confrontava con una tragedia così profonda che forse non
c’era modo di fare gli opportuni distinguo. La redazione rumoreggia. Risate
sarcastiche accolgono quella valutazione. C’è pure chi vorrebbe avere l’ardire
di ragionarci sopra. Flavia Perina, all’epoca caporedattore, richiama tutti all’ordine:
“Ma dico, a Fiuggi non c’eravate? Non vi ricordate? Vi siete già dimenticati
che tutti hanno alzato la manina per rivalutare l’antifascismo?”. Le proteste
si spengono in un borbottìo di fondo. Il giorno dopo sul Secolo quella notizia
non ci sarà. Mi ricordo di avere pensato: meno male che mio padre è morto. Mi
ricordo che mi arrivò la telefonata di una collega di Repubblica, era Concita De Gregorio. Mi fa: “Mi hanno detto di
parlare con te che sei una voce critica verso Fini…”. La cosa mi indispettisce:
“Ma come – le rispondo – qua c’hanno tutti due o tre pennacchi a testa e devo
parlare io? E che peso ha quello che ti dico io?”. E lei: “Ma tu sei d’accordo?
Tu pensi che il fascismo sia il male assoluto?”. “Ma no, ma no che non sono d’accordo,
ma guarda che non puoi fare un pezzo così, su chi è a favore di Fini e chi è
contro, tutti sono contro ma non lo diranno mai”. “Tutti chi?”. “Tutti, tutti,
questa fuoriuscita dal fascismo Fini la sta facendo in solitudine, è chiaro?”. “Sì
ma voi che pensate del fascismo?” “Ma voi chi?” “Voi, voi di An”. “Non pensiamo
niente. Fino al ’95 si poteva parlare benino del Duce, dopo il 95 si doveva
dimenticare il Duce, ora se ne deve parlare male, ma non è una cosa seria dai…”.
Di quella conversazione su Repubblica non uscì nulla. Come io le avevo detto,
infatti, doveva parlare con un nome pesante, non con me che non contavo niente.
Non trovò nessuno disposto a fare dichiarazioni.
Poi ci fu la
convention di Francesco Storace all’Hilton di Roma. Pienone. Rabbia. Io c’ero.
E pensavo che sarebbe stata la volta buona per far nascere finalmente una corrente
d’opposizione a Fini dentro An. Invece no, perché Storace e Alemanno erano
troppo occupati a fare opposizione l’uno all’altro. Comunque al Secolo mi
permisero di fare un risicato resoconto della manifestazione, tagliando
ovviamente i passaggi più critici verso il leader di An. Mi ricordo che Il Riformista ironizzò su quel pezzo: al
Secolo conoscono la libertà di stampa, scriveva all’epoca Il Riformista, e la esercitano per difendere il fascismo che quella
libertà aveva soppresso.
Oggi, fuori
dalla ricerca storiografica che continua ad approfondire aspetti interessanti e
inediti del fascismo visto nella sua complessità di fenomeno storico, il
Ventennio è divenuto puro merchandising che ha a Predappio il suo crocevia
folkloristico. L’approccio superficiale della destra al fenomeno non è
cambiato, anzi si è cristallizzato in quattro o cinque battute non esaltanti
che Silvio Berlusconi ha dedicato al tema. Il cognome Mussolini è una specie di
marchio (e non mi metto qui a parlare di chi su di esso ha costruito la propria
fortuna politica). L’immagine di Mussolini attira l’attenzione quanto il sedere
di Belen. Rispetto a tutto ciò la destra avrebbe il dovere di un approccio
critico. Avrebbe dovuto avere la forza di costruire negli anni un solido punto
di riferimento per lo studio del fascismo. Invece dopo le rimozioni forzate
siamo arrivati agli auguri al Duce (a 131 anni dalla nascita) sul Secolo
online. Il rischio è quello che tocchiamo con mano: tagliati fuori dal dibattito serio sul fascismo, tagliati
fuori dalla storia di quella che viene considerata la vera destra italiana (che
comincia con Cavour e finisce con Monti) come dimostra l’ultimo libro di
Antonio Polito che, interrogandosi sulla mancanza della destra in Italia, evita proprio di
citare Msi e An. La nostalgia per il fascismo è finita. Non è più spendibile
neanche elettoralmente. Neanche i reduci ce l’hanno più. Ogni tanto sento al
telefono Franco Grazioli, ex battaglione Lupo della Decima. Sta scrivendo le
sue. Ci siamo sentiti per il 25 aprile. Lui ha detto: basta guardare indietro,
basta con queste rievocazioni, era la nostra guerra non quella di chi è giovane
oggi. Una cosa molto saggia.
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