Articolo pubblicato sul quotidiano il Garantista mercoledì 16 luglio
Luciano Lanna
Quarant’anni fa, il 16 luglio
1974, Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere
della Sera una dei suoi editoriali che ancora oggi restano nell’immaginario
continuando a farci interrogare sul cuore del “caso italiano”. Il tema era
oggettivamente pasoliniano: “Il fascismo degli antifascisti”. E il ragionamento che il poeta vi svolgeva
era la continuazione di quanto andava spiegando da oltre un mese, a cominciare dall’editoriale
“Gli italiani non sono più quelli”, del 10 giugno, a quello su “Il potere senza
volto”, del 27 giugno, sino alle note riflessioni sulla rivoluzione
antropologica e l’omologazione in Italia, dell’11 luglio. Si tratta di alcuni
degli articoli che verranno poi raccolti in un libro nel novembre 1975 nell’ultima
opera pubblicata in vita da Pasolini: Scritti
corsari.
In tutti quegli articoli
l’autore denunciava il fatto che nessuno in Italia si mostrava in grado di
comprendere quanto stava realmente accadendo: “Una mutazione della cultura
italiana, che si allontana tanto dal fascismo che dal progressismo socialista”.
In realtà, precisava Pasolini, era in atto un fenomeno devastante e
inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla trasformazione del sistema
di Potere: “L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e
borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che
si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai
la stessa…”.
Sino al passaggio più
importante: “Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una
scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi
cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista.
Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante,
fisicamente, interscambiabili…”. E anche guardando ai giovani che in quel 1974
si chiamavano e venivano definiti “fascisti”, Pasolini spiegava che si trattava
di una definizione puramente nominalistica e che portava fuori strada: “È inutile
e retorico – concludeva – fingere di attribuire responsabilità a questi giovani
e al loro fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è
la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei”.
Il problema, semmai, era il
nuovo Potere, non ancora rappresentato simbolicamente e dovuto alla mutazione
della classe dominante, il quale stava omologando la società italiana. Si
trattava – annotava preoccupato Pasolini – di un una omologazione repressiva,
pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre”. E la strategia della
tensione ne era a suo avviso una spia significativa che ne svelava l’altra
faccia della medaglia…
Pasolini insomma, in totale
controtendenza rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a
cogliere e contrastare il volto disumano del nuovo potere piuttosto che a
rimuovere il problema rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo
massimo. “E bisogna avere il coraggio – aggiungeva – di dire che anche
Berlinguer e il Pci hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel
nostro paese negli ultimi dieci anni”. Perché infatti, si domandava il poeta,
rilanciare trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva
antifascista (che oltretutto portava fuori strada) invece di aggredire dalle
fondamenta il nuovo potere senza volto, magari con le sembianze di una società
democratica e di massa, “il cui fine è riorganizzazione e l’omologazione
brutalmente totalitaria del mondo”? E in questo passaggio Pasolini aggiungeva
un’autocritica inedita e importante: “In realtà – confessava – ci siamo
comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente.
Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando
uno di quei giovani decideva di essere
fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e
irrazionale… Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito
accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli
adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla…”.
Chissà quanto si sarebbe
scongiurato di quanto è avvenuto dopo – in termini di messa in moto
dell’antifascismo militante, della conflittualità destra/sinistra e dello
stesso spontaneismo armato successivo – se si fosse dato ascolto, allora, a
Pasolini? Ma la storia non si fa con i “se” e quanto lui scriveva oggi vale
soprattutto come controcanto a una vicenda ancora tutta da analizzare
storiograficamente.
Importante, inoltre, il
fatto che il succo dell’articolo del 16 luglio riguardasse il “silenzio”
mediatico e politico sui vincitori del referendum del 13 maggio, Marco Pannella e i radicali. Di fronte
all’affermazione crescente di un potere a vocazione totalitaria – che si
reggeva sul patto Dc-Pci-Confindustria-cultura consumista – i radicali
apparivano a Pasolini come il solo fenomeno irriducibile ed eccedente. “Nessuno
dei rappresentanti del potere – annotava – sia del governo che
dell’opposizione, sembra neanche minimamente disposto a compromettersi con
Pannella e i suoi. La volgarità del realismo politica sembra non poter trovare
alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di
esorcizzare e inglobale il suo scandalo”. Il Partito Radicale e il suo leader
Marco Pannella erano, spiegava il poeta, i reali vincitori del referendum sul
divorzio del 12 maggio e proprio questo non gli veniva perdonato da nessuno.
Ma, “anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica,
in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella
e i suoi compagni – scriveva Pasolini – vengono ricusati come intoccabili.
Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli
si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di tribuna libera”. Antifascismo
pretestuoso e fuori tempo massimo, da un lato, e censura della presenza
radicale, dall’altro. Una domanda è inevitabile: quanto c’è, quarant’anni dopo,
di continuità con quella logica del potere?
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