sabato 5 ottobre 2013

Attenti al gorilla! Riascoltiamo e rileggiamo Georges Brassens



Luciano Lanna


Antonio Manfreda, un mio caro amico oltre che collega negli studi universitari e commilitone nel servizio militare, è uno studioso di filosofia di quelli davvero seri. Per niente presente nel teatrino mediatico, preferisce trascorrere ore e ore in biblioteca a studiare e non a caso è uno dei migliori esperti italiani di Weininger, Benjamin o Jünger. Docente di filosofia nel secondo ateneo romano, ama soprattutto stare insieme e conversare tra amici. Non c’è festa o incontro in cui non sfodera la chitarra e non s’esibisce in uno dei suoi pezzi forti, Il gorilla di Georges Brassens, cantato nella versione di Fabrizio De André: «Piangeva il giudice come un vitello / negli intervalli gridava mamma / gridava mamma come quel tale / cui il giorno prima come ad un pollo / con una sentenza un po’ originale / aveva fatto tagliare il collo / Attenti al gorilla!».



Ne scrivo per smantellare ancora una volta i soliti stereotipi sulle due culture, quella cosiddetta alta e quella bassa, e spiegare che il “cantautore” Brassens può e deve essere considerato uno degli autori che insieme a Camus, Orwell o Simone Weil, va oggi inserito nel pantheon di chi oggi intravede e intende declinare una nuova grammatica della libertà, esistenziale e personale ancor prima che politica. Se nell’ottobre del ’53 c’era stato il suo trionfo dal palco dell’Olympia, cinquant’anni fa esatti, nell’ottobre 1963, il nome di Brassens entrava già nei piani alti della cultura con un suo libro pubblicato nella collana poetica dell’editore Seghers, quella che era  inaugurata dal surrealista Paul Eluard e in cui Brassens si troverà in compagnia di Victor Hugo, Verlaine e Aragon, tutti d’altronde da lui musicati.

Era nato a il 22 ottobre 1921 a Séte, in Linguadoca, morirà il 29 ottobre del 1981 nel paesino di Gély-du-Fesc, vicino a Montpellier. E per tutta la sua vita Brassens fu un libertario senza se e senza ma, refrattario all’incasellamento in qualsiasi ideologia, da lui considerata in quanto tale la causa principale della tragedia delle vittime nella storia. Se nella sua canzone Le deux oncles prendeva le distanze sia dai vincitori che dai vinti della seconda guerra mondiale, in La tondue arrivava coraggiosamente a criticare la ferocia nelle epurazioni. La ballata era infatti la storia di una ragazza accusata di collaborazionismo con i tedeschi e punita con il taglio dei capelli.

Scrittore, poeta, attore e soprattutto cantautore, Brassens si limitava a definirsi un libertario tout court, evocando un’anarchia che è prima di tutto una forma di tenuta esistenziale: «La cosa più difficile nella vita? Essere sé stessi. E avere carattere a sufficienza per restarlo». Fatto sta che tra la fine degli anni ’50 e i primi dei ’60 qualcuno anche in Italia, soprattutto a Genova, scopriva la musica e i testi di Brassens. «La sintonia politica e culturale non guastava, gli stessi interessi estetici ancor meno: senza di lui forse non avrei mai scritto certe canzoni» ha ammesso Bruno Lauzi, riferendosi a brani come La banda o Il poeta. Quindi sarà Fabrizio De André a tradurre e incidere in italiano molte delle ballate dello stesso Brassens, dalla celeberrima Il gorilla a Morire per delle idee.



«Mio padre – ha raccontato l’autore di Bocca di Rosa – mi portò incautamente a casa i primi dischi di Brassens perché aveva contatti con la Francia. Per me non è stato solo un maestro dal punto di vista didattico e musicale, è stato anche un maestro di pensiero e di vita». Non indifferente al cantautore francese è stato anche Gino Paoli che cantò il bellissimo pezzo Marcia nuziale tradotto proprio da De André. Per non dire delle versioni dialettali di Nanni Svampa o di Gipo Farassino.

«Io non sono poeta, o forse solo un pochino: mescolo parole e musica e poi canto», diceva di se stesso Brassens. Si può infatti sostenere che quest’uomo massiccio e baffuto ha come pochi intrigato la Francia degli intellettuali insieme a quella popolare con le sue storie di marginali, puttane, ladruncoli, ex galeotti, disoccupati, immigrati, tipi che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. E di contro i suoi obiettivi polemici non potevano che i benpensanti, la triade giudici-poliziotti-clericali. Si vantava di non essere mai entrato dentro una banca e diceva di essere così libertario da attraversare scrupolosamente sulle strisce pedonali, pur di non dover avere a che fare con i gendarmi.

Qualche anno fa, la romana casa editrice Coniglio ha mandato in libreria Le strade che non portano a Roma. Riflessioni e massime di un libertario, una selezione di suoi aforismi raccolti da Jean-Paul Liégeois. Pagina dopo pagina il suo individualismo fa tabula rasa di tutti i tentativi di incasellarne il pensiero: «I fessi non hanno speranze. Non ne hanno bisogno. Per il fatto di essere fessi, tutto appare loro semplice».

Dalla lettura del libro emerge in tutta evidenza il suo retroterra culturale, si scoprono quali sono stati gli autori che hanno inciso sulla sua formazione: su tutti Villon, Baudelaire, La Fontaine, La Rochefocauld, Mallarmé, Céline e Rabelais. Un mix culturale che nella Francia degli anni ’50 e ’60 appariva un po’ urticante. Va ricordato che, come accadrà più avanti in Italia per De André e Guccini, più della metà delle sue canzoni erano censurate sulle radio e televisioni e che solo qualcuna poteva andare in onda, ma solo dopo la mezzanotte.

De André, che come abbiamo visto indicava Brassens come suo maestro non volle però mai incontrarlo per timore di andare a sbattere contro un carattere burbero o scostante.  Eppure Elvira, la madre di Georges, era d’origine italiana, di Marsico Nuovo, in Lucania. Vedova di guerra, con una figlia, Simone, si era risposata con Jean-Louis Brassens, muratore, e il 22 ottobre del ’21 era nato Georges: «Sono cresciuto in mezzo alla musica. Cantava mia madre, canzoni napoletane, e di quelle francesi trascriveva i testi e li imparava a memoria. Cantava mio padre, sul lavoro. A cinque anni sapevo già 250 canzoni».

Poi nella vita di Georges arrivano due svolte fondamentali. Al liceo il professor Bonnafé lo fa innamorare della poesia: Villon e poi Victor Hugo, Rimbaud, Verlaine… Purtroppo, in seguito a una condanna a quindici giorni di carcere con la condizionale perché coinvolto di striscio in una serie di furtarelli, storia narrata in una canzone (Les quatre bacheliers), migra nel ’40 a Parigi. Lavora alla Renault, collabora alla rivista Le monde libertaire con pseudonimi bizzarri (Jo Cédille, Pépin Cadavre). Nel ’44, in licenza da militare, si nasconde al numero civico 9 di Impasse Florimont, nel 14esimo arrondissement. Ci resterà fino al ’66. La donna della sua vita la incontra nel ’47, in metropolitana: Joha Heiman, estone, divorziata, più grande di lui di dieci anni.

La svolta musicale va però datata al 1952. È Patachou, cantante e proprietaria di un famoso cabaret parigino, a imporlo nel mondo della canzone, dove Brassens si presenta a trentun anni. Molti trovano troppo semplice, a base di soli tre accordi, la sua musica. E l’accompagnamento a base di una sola chitarra. Ma sui testi nessuno mette in dubbio la sua maestria: abilità nella metrica, sapiente alternanza di cultura classica e parolaccia da strada. All’inizio degli anni ’80 Garcia Marquez lo definirà «il più grande poeta francese vivente». Che il suo pensiero fosse anticipatore lo dimostra per tutte questa sua frase: «L’informazione è cresciuta più velocemente della cultura, in questo senso la propaganda ha più chance di prima. Viviamo purtroppo in epoca di slogan…».

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