domenica 27 ottobre 2013

Sulla scorta di Papa Bergoglio ve lo spiego anche io: perché non sono mai stato di destra


Luciano Lanna


Non molti osservatori si sono soffermati come meritava su un’affermazione di Papa Bergoglio espressa nel corso della sua lunga intervista concessa a padre Antonio Spadaro su Civiltà Cattolica. “Non sono mai stato di destra”, ha ammesso candidamente il Papa, contravvenendo a una vecchia e tacita convenzione secondo cui i pontefici della Chiesa cattolica dovrebbero sottrarsi a questioni che riguardano le umane, troppo umane, collocazioni politico-ideologiche.  A nostro avviso si tratta in realtà di un’ammissione che, se interpretata e tematizzata correttamente, consentirebbe – e non solo per la particolare autorevolezza della fonte – di ipotizzare una via di superamento delle aporie e delle contraddizioni connaturate alla bisecolare categorizzazione spaziale dell’orientamento e della sensibilità politico-culturale di ognuno di noi. E lo consentirebbe proprio perché proviene da una figura che, stando alle letture convenzionali e alla vulgata mediatica, avrebbe dovuto “appartenere” più a destra che altrove. Non solo per la sua storia pastorale, legata a temi come la difesa della famiglia e della vita sin dal concepimento, ma anche per le matrici politico-culturali del suo milieu, non solo geografico, di formazione.


Ha annotato, non a caso, Vittorio Messori poco dopo la sua elezione al soglio di Pietro e le sue prime esternazioni di rottura: “Molti nella Chiesa erano perplessi per uno stile in cui sembrava di avvertire qualcosa di populista, di sudamericano che in gioventù non fu insensibile al carisma di Peròn…”. Contesto e milieu “peronista” che torna nelle stesse parole del Papa riportate nell’intervista a Civiltà cattolica, laddove Bergoglio dovendo citare i “suoi autori” di riferimento parla “ovviamente” di Dante, di Borges, ma anche del “peronista” Leopoldo Marechal, l’autore di Adán Buenosayres


D’altronde l’argentino Carlos Gabetta, politologo e studioso del peronismo, non ha dubbi: “L’immagine di semplicità popolare del Papa è autentica, così come autentica è la cultura peronista che rivelano i suoi gesti”. Aggiunge Francisco Mele, successore di Bergoglio al Collegio universitario del Salvador di Buenos Aires: “Questo Papa rappresenta la voce dell’America Latina, non è solo un patriota argentino, forse un peronista. Come ama dire lui stesso, egli parla per tutti i popoli”. D’altronde, anche se in Italia la questione non è mai stata approfondita: in Argentina il peronismo è un fenomeno che nella sua complessità va dalle componenti cristiano-sindacali, a quelle cattolico democratiche, a fermenti populisti sino ai segmenti di estrema sinistra da cui si originarono i Montoneros. Niente, ma proprio niente, a che vedere con le destre e in particolare con i militari che nel 1976 deposero Isabelita Peròn e instaurarono la dittatura.
Quindi, volendo pure forzare, potremmo allora dire: peronista sì, ma mai di destra. Ma come è possibile?, se lo chiedono solo i conformisti e i custodi delle etichette stereotipate. Come interpretare d’altronde il passo dell’intervista in cui Bergoglio riconosce la sua passata difficoltà di fronte ai tentativi di catalogazione del suo apostolato? “Il mio modo rapido di prendere decisioni mi aveva portato – riconosce – ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova… perché non sono mai stato di destra. Alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo…”. Un passo in cui è evidente la connessione imprescindibile dell’etichetta di destra a dimensioni come l’autoritarismo e il conservatorismo che, piaccia o meno, sono ormai automaticamente connesse a quella specifica categorizzazione spaziale. Connessione che, tanto per dire, è automatica anche per una certa ossessione unilaterale per le cosiddette “questioni etiche” o sensibili. Dalla quale ossessione, ancora, Papa Bergoglio ha preso le distanze spiegando la necessità di anteporre la “buona novella” evangelica a qualsiasi professione di fede moralista tutta giocata sui valori: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Ma questo mio non insistere mi è stato rimproverato…”.


Chiedendo preventivamente scusa per il passaggio di contesto, da quello ecclesiale a quello più banalmente politologico e sociologico e incentrato in particolare su un segmento di realtà tutta italiana, proverei a sollecitare la stessa osservazione di Bergoglio da parte di chi – essendosi formato nel mondo postfascista, in quello missino o in aree antropologiche vicine – ha provato una sorta di contraddizione simile. La suggestione fornita dal Papa potrebbe infatti invitarci a un’interrogazione sul fenomeno, ampio, diffuso, trasversale ma da portare finalmente a chiarimento, dell’esistenza di realtà soggettività, figure e istanze “non di destra” ma che una certa semplificazione – quando non un’accettazione passiva e fonte di equivoci – ha fatto transitare dentro contesti convenzionalmente definiti, quando non auto-definitisi, “di destra”. Per dirla tutta, già  nei primi anni Ottanta il politologo cattolico Giovanni Tassani arrivava a porre la questione, essenziale, circa la possibilità (che si rivelava una contraddizione in termini) di “un’altra destra” ma la sua risposta. Che era anche un’indicazione metodologica. non venne purtroppo recepita dai più. “Potrà una destra – si chiedeva lo studioso – essere nuova al punto di essere: non gerarchica, non totalitaria, non conservatrice, non anti-moderna, non patriottarda, non xenofoba (e potremmo aggiungere noi, tra le varie opzioni possibili: non qualunquista, non securitaria, non autoritaria, non nazionalista, non nostalgica, non statalista, non moralista, non militarista, non clericale, non legata al moderatismo, non legge&ordine…) e via dicendo… Ma è forse destra questa? O, forse, come destra, essa non esiste più: in quel momento essa sarebbe davvero un’altra cosa”. Appunto: non riconoscendosi in nessuna di quelle opzioni possibili, che sono poi quelle che ovunque nel mondo definiscono le destre, perché non avere il coraggio di “farla finita” una volta per tutte con quell’etichetta fuorviante e dire invece chiaramente che non si è e non si era di destra?



D’altronde vicende come una visione del mondo post-materialista e connessa a una riscoperta della spiritualità dopo il ’68, la riappropriazione della grande “cultura della crisi” e dei suoi autori (da Nietzsche e Heidegger a Junger, contemporaneamente riscoperti – sia ben chiaro – negli stessi anni anche da intellettuali provenienti da sinistra come Cacciari, Asor Rosa o Marramao) e finanche una rilettura storiografica del fascismo successiva all’interpretazione di De Felice, cosa avevano o cosa avrebbero a che fare a che fare con marce di maggioranze silenziose, nazionalismi ostentati, paure dell’avanzata delle sinistre, bigottismi e autoritarismi di sorta, qualunquismi anti-tasse, spirito di censura e rifiuto del nuovo? Nulla, se non quel grande disordine – magari motivato da percorsi storici reali – che ha portato a attribuire tout court a destra i peronisti (tutti i peronisti) o il mondo missino (in cui non tutto, come abbiamo visto, era di destra, anzi…). Ad esempio, il politologo Marco Revelli, attento studioso da sinistra di questi fenomeni, anni fa aveva invitato a non unificare in un unico giudizio e in un’unica interpretazione tutto ciò che nella seconda parte del secolo scorso è stato collocato, legittimamente o meno, nell’orizzonte postfascista. In particolare, a dire di Revelli, già tra il 1974 e la metà degli anni Ottanta buona parte degli esponenti della cosiddetta generazione Campo Hobbit e di un certo universo missino non erano, in realtà, “di destra” ed erano in possesso di codici adeguati a interpretare la contemporaneità, «quelli generatisi nella grande cultura novecentesca, che li includevano in una forma possibile della comunicazione. Quel segno è rimasto, quell’abitudine al pensiero ha permesso a molti un’evoluzione convergente con l’area democratica delle culture politiche del nostro paese…».Tre anni fa, questo specifico fenomeno di sfondamento in campo aperto da parte di figure ed esperienze avviatesi da un contesto originario neo o post fascista, è stato al centro di un interessante e utile libro di Giovanni Tarantino Da Giovane Europa ai Campi Hobbit (Controcorrente edizioni, pp. 204, euro 10,00), un saggio che ha avuto innanzitutto il merito di aver tolto il cono d’ombra che impediva sinora di conoscere davvero tutta una serie di fenomeni movimentisti sui quale gravava l’impossibilità di una documentazione adeguata. Solo poche riviste erano approdate nelle biblioteche nazionali o presso istituti di studio di storia contemporanea, moltissime pubblicazioni uscivano per brevi periodi e poi scomparivano, il ciclostile era spesso il solo mezzo di stampa usato e quei fogli sono oggi introvabili. I volantini e molti documenti si sono dispersi e solo qualcuno tra gli interessati li ha conservati. L’autore, Giovanni Tarantino invece, sin da quando era un giovane liceale contrario all’intervento militare in Kossovo, incuriosito dalla scoperta di persone collocate (e spesso autocollocatesi) a destra ma che si schieravano diversamente dalle destre vuole capirne di più e inizia a cercare libri e riviste, a scrivere ai protagonisti di quelle stagioni politico-culturali degli anni Sessanta e Settanta, ne raccoglie alcune testimonianze, di alcuni ne diventa amico personale. E a un certo punto si convince che certi fenomeni e certe biografie vanno «raccontate e spiegate oltre la convenzionale collocazione storiografica all’interno della sola galassia neofascista o postfascista».Da quell’impulso ne è venuta fuori la sua tesi di laurea in storia contemporanea, ma poi la sua ricerca prosegue con l’inizio della sua vocazione giornalistica. Inizia infatti a intervistare altri protagonisti di quel filone, ne scrive articoli, recensisce saggi usciti negli ultimi anni. «Da allora – scrisse nella prefazione del libro, il cui sottotitolo è “1966-1986: vent’anni di esperienze movimentiste al di là della destra e della sinistra” – attraverso un interessante viaggio a ritroso sono approdato al clima del pre-Sessantotto e mi sono soffermato soprattutto su due esperienze, Giovane Europa e la cosiddetta generazione Campo Hobbit, apparentemente diverse tra loro per contesto storico, ma che sono poi venute a intrecciarsi e hanno avuto senz’altro più di qualcosa in comune. In particolare, facendo riferimento al mondo giovanile da quale queste realtà nascevano emerge un dato fondamentale: le pulsioni di chi le animava erano appropriatamente contestualizzate nell’ambito dei grandi fenomeni generazionali di due precisi e determinati momenti di svolta epocale: il Sessantotto e il Settantasette, di cui hanno rappresentato espressioni compiute e legittime».Come spiegare d’altronde, itinerari, come quelli che il libro per la prima volta ha messo insieme e raccontato pubblicamente? Quello di Pino Masi, ad esempio, che inizia come collaboratore di Beppe Niccolai e finisce per avvicinarsi a Adriano Sofri e diventare il cantautore di Lotta Continua. Oppure la vicenda di Piero Verni, da giovanissimo corrispondente romano di Giovane Europa a collaboratore della rivista libertaria Re Nudo e poi, vicino ai radicali, animatore dell’associazione Italia-Tibet. E che dire di Enzo Biffi Gentili, giovane responsabile di Giovane Europa a Torino e poi vicesindaco socialista che nel 1980, unico a sinistra insieme al suo amico Gianni Dolino, polemizza contro la marcia dei 40mila del 1980? Oppure di Massimo Brutti, esponente nel 1968 di Forza Uomo, un’organizzazione di ex del Fuan, e successivamente esponente della Cgil, del Pci e del Pd. E Sergio Caputo, il cantautore che prima di esordire alla fine degli anni Settanta al Convento Occupato e al Folkstudio scoperto da Ernesto Bassignano, aveva animato la rivista Alternativa del Fronte della Gioventù romano e sperimentato una sorta di via freak al postfascismo? Per arrivare sino a quella generazione dei Campi Hobbit degli anni '70, della quale più di qualcuno, come Umberto Croppi, finiranno per partecipare alla nascita di Nessuno tocchi Caino oppure a fare politica anche con i Verdi. Oppure ai ragazzi napoletani che, come racconta nel libro l’ex di Università Europea Emiddio Novi, proseguiranno dopo il Sessantotto, «a far politica ma molti di loro non certo a destra ma con i radicali».



Per tutti forse vale quanto ammette lo storico Franco Cardini, che da ragazzo militò in Giovane Europa: «Eravamo, semplicemente, ragazzi che avevano sbagliato collocazione: e che forse non ne hanno mai saputo costruire una politicamente plausibile…». Il movimento europeista fondato da Jean Thiriart, Jeune Europe appunto, l’associazione L’Orologio animata negli stessi anni da Luciano Lucci Chiarissi e quindi la generazione dei Campi Hobbit, da nome dei raduni che tra il ’77 e l’80 espressero plasticamente una antropologia non di destra e che rompeva con il neofascismo, sono forse spiegabili così: «Il tentativo – annota Tarantino – di sviluppare nuove sintesi e percorsi possibili oltre gli steccati destra/sinistra, l’abbandono del nazionalismo, la fuoriuscita dal tunnel del fascismo, l’attenzione a un comune sentire europeo, segnavano l’irriducibilità oggettiva tra queste componenti e la destra, sia quella politico-parlamentare che quella culturale di stampo conservatrice». Significativa un documento che Tarantino riporta e risalente al 1981, con il quale un gruppo di “camerati” protestavano contro la “deriva sinistrorsa” del gruppo dei Campi Hobbit: «Gravi segni ci indicano che è in atto un processo di sfaldamento. Voler parlare anche a sinistra è significato per molti, per troppi, mutuare sic et simpliciter il linguaggio, i modi e spesso le idee della sinistra, inoculando germi anarcoidi e libertari. Alcuni camerati si sono riscoperti filo palestinesi, in qualche caso sembrano addirittura musulmani…».Riportiamo questi dati dal libro di Tarantino perché, purtroppo, per un motivo o l’altro – magari la scelta non azzeccata del titolo e l’immagine di copertina – non hanno consentito l’adeguata percezione del suo contenuto e, peggio, il saggio è stato letto da alcuni ambienti come una cronaca di vicende interne all’estrema destra. Eppure vi si raccontava di Franco Cardini e dei suoi amici che, ad esempio, avevano partecipato attivamente al guazzabuglio del Sessantotto, tra occupazioni, dibattiti, cortei e assemblee: “Noialtri che ascoltavamo Bob Dylan e Joan Baez e che –ricorda lo storico – rispondevamo ‘Di destra sarà lai!’ a chi ci indicava con quella etichetta…”.Ripetiamo: lo stesso orizzonte antropologico e anche politico-culturale dei fascisti – la cui interpretazione andrebbe storiograficamente distinta dal giudizio sul fascismo come fenomeno politologico – non è certo riconducibile, come è anche per il peronismo, tout court a destra. Come è possibile, d’altronde, anche volendo forzare riportare a destra figure, pur diverse tra di loro, come Giovanni Gentile o Leandro Arpinati, Ugo Spirito e Giorgio Del Vecchio, Giuseppe Bottai o Edmondo Rossoni, Mino Maccari o Giorgio Pini? Osservazione che, oltretutto, è ancora più forte per le suggestioni che hanno circolato nel postfascismo vastamente inteso, da Ernesto Massi a Giuseppe Berto, da Giuseppe Niccolai a Alberto Burri, da Luciano Lucci Chiarissi a Marcello Gallian? La stessa ricerca, che ha costeggiato decenni, di una qualificazione del termine destra con un’aggettivazione ossimorica in grado di trasformarne il senso – da destra “sociale” a destra “nazionale” – non è forse anch’essa il segno di questa contraddizione? Personalmente, ho anche provato a dedicare buona parte del mio libro Il fascista libertario (Sperling & Kupfer, 2011) all’esistenza di questa intima contraddizione di tantissime persone e a verificare come l’immaginario della maggior parte di chi negli anni Settanta-Ottanta si riconosceva nelle sigle del FdG, del Msi e di altre realtà affini non fosse affatto conservatore e di destra, ma sostanzialmente di natura libertaria. Come attesta una dichiarazione esplicita di Enzo Palmesano, un giornalista che proviene dall’impegno giovanile nel Msi e nel Fronte della Gioventù: “Avevo – ammette col senno di poi – e avevamo chiamato ‘fascismo’ la nostra ribellione giovanile, la nostra voglia di cambiamento, il nostro essere dalla parte dei deboli, con gli operai delle fabbriche in crisi e nelle battaglie ambientaliste. Stare dalla parte degli immigrati, di chi chiedeva diritti civili, essere contro il razzismo, e allo stesso tempo dirsi fascisti. È la suprema contraddizione, è il fascino della contraddizione, io l’ho vissuta in pieno…”.Insomma, credo che le parole di Papa Bergoglio debbano essere fatte proprie anche da tutto questo universo antropologico e politico. Non è più tempo di consentire a una contraddizione di persistere nella confusione. E sia ben chiaro: non è che non dirsi di destra equivalga a dirsi di sinistra (o, peggio, di centro). È che dal tempo delle etichette occorre passare a quello dell’intelligenza e dei contenuti. Più che di destra o di sinistra, occorre schierarsi sulle grandi (e vere) questioni: si è libertari o autoritari, innovatori o conservatori, aperti e pluralisti oppure in difensiva in una sorta di cittadella assediata? Il resto non conta…

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