Riccardo Ponti
È un libro da leggere,
questo La leggenda del giornalista spia
(Koinè, pp. 375, euro 18,00) di Lando Dell’Amico, utile soprattutto per cercare
di afferrare dietro le quinte i fili e gli intrecci di almeno sessant’anni di
vita pubblica italiana, dalla fine del fascismo sino all’avvento di Berlusconi
in politica. Da leggere, innanzitutto per l’autore e protagonista del libro, un
giornalista che ha attraversato in prima linea tutti i punti critici del
secondo dopoguerra e degli anni della guerra fredda, ma anche per
l’interessante affresco di prima mano su cosa sia stato nel profondo, nel nostro
“secolo breve” all’italiana, l’intreccio tra potere politico, potentati
industriali e finanziari, azioni delle potenze straniere, apparato
tecno-militare e su quali siano state le sue ricadute. Terzo elemento di
interesse, infine, lo scoperchiamento del ruolo sotterraneo, ma non troppo, del
giornalismo e delle agenzie di stampa nel diffondere notizie e condizionare la
partita politica. Dell’Amico rievoca e racconta le vicende che hanno coinvolto
la sua azienda editoriale, l’Agenzia
Giornalistica Repubblica (con tanto dell’annessa Agenzia parlamentare Montecitorio), ma quelle stesse esperienze
riguardavano, nella stessa modalità, tutte le altre aziende editoriali e
giornalistiche dello stesso lungo periodo: riferimento diretto o meno a una o
più realtà finanziarie o industriali (nel suo caso prima l’Eni, poi la Sarom
del petroliere Monti), l’aggancio con spezzoni del mondo politico, il cavalcare
campagne – scandalistiche o meno – in grado di condizionare l’evoluzione del
quadro politico. Un intreccio complesso e articolato che se è valso per
l’Agenzia di Dell’Amico, valeva anche per altre realtà, fossero esse le agenzie
di stampa oppure testate come Lo Specchio
o Il Borghese di Mario Tedeschi, Abc, Tempo
Illustrato, Op e Mondo d’Oggi ma anche L’Espresso di Scalfari e Jannuzzi o,
oggi, il sito Dagospia. Che un certo
tipo di giornalismo raccolga e diffonda informazioni, anche attraverso dossier,
e ne faccia campagne, è una dimensione propria della vicenda italiana del
secondo dopoguerra, e non ha senso tratteggiare come “giornalista spia” solo qualcuno
dei suoi protagonisti come Dell’Amico, in quale oggi ottantasettenne s’è tolto
qualche sassolino dalle scarpe e racconta tutta la sua avventura…
Lando Dell’Amico ha del
resto alle sue spalle un percorso politico-culturale davvero interessante e in
grado di rappresentare una metafora del nostro Novecento. Nato a Carrara nel
1926, figlio di un fascista, si arruola giovanissimo nella Rsi. Combatte ad
Anzio con la Decima Mas e viene ferito. Si rifugia a Roma dopo che la fine
della guerra l’avevo colto a Varese in licenza di convalescenza. Si rifugia a
Roma e lì frequenta gli ex camerati repubblichini, dalle 13 alle 20 di ogni
giorno, accompagnando suo padre e sua madre in un vicolo sotto il Quirinale:
“Fu lì che conobbi, con le toppe sui pantaloni, persino Giorgio Almirante, l’ex
capo di gabinetto del ministro della Cultura Popolare della Rsi, leader ancora
in pectore del Msi, e insistevo in quelle frequentazioni politiche più che per
complottare o tramare ma soprattutto per consumare i pasti che Santa Romana Chiesa
ivi allestiva per gli affamati e i nullatenenti reduci dall’ultima avventura
mussoliniana”.
Alla fine del 1946, fondato
il partito neofascista, Almirante nomina proprio Lando Dell’Amico primo
segretario del Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori, il primo
movimento giovanile missino, anticipatore di ciò che in futuro saranno la
Giovane Italia e il Fronte della Gioventù. Ma durò pochi mesi, Dell’Amico sbatte
la porta e trasloca con i fasciocomunisti della rivista Il Pensiero nazionale, diretta e fondata da Stanis Ruinas. Da
leggere, all’inizio del libro, una corrispondenza tra lui e Almirante della
fine del 1948. A ottobre Dell’Amico aveva infatti scritto ad Almirante,
diventato nel frattempo deputato oltre che segretario nazionale del partito degli
ex fascisti: “La politica del Msi passa ormai anni luce dalle mie convinzioni.
Il fascismo è morto con Mussolini… Noi giovani stiamo nascendo alla politica e
alla dialettica delle idee in un’epoca di libertà, se pure in un quadro di
restaurazione capitalistica e d’imperialismo americano, mentre il Msi canta
d’essere nato ‘in un cupo tramonto’. Un clima di cui non avvertiamo il pathos
pessimistico. Tu sei – scriveva il ventiduenne Dell’Amico all’amico Almirante –
una persona seria, credi in quello che fai, non sei intellettualmente
imbalsamato. E rifiuti, me lo dicesti proprio nel giorno in cui ci conoscemmo,
l’esperienza giovanile di segretario di redazione della rivista La Difesa della Razza. Ma mi dai
l’impressione di volere al momento coltivare l’orticello elettorale del
reducismo e del nostalgismo, addirittura del neofascismo storico, pre-Salò,
senza provocare strappi salutari seppur sentimentalmente dolorosi perché
fondati sull’autocritica…”. Davvero lucida e anticipatrice l’analisi sul
“ruolo” del partito di Almirante: “Quando il Msi, la cui unica missione mi pare
sia ormai quella di conservare moralmente ma politicamente ibernata una base
del tutto estranea se non nemica del sistema democratico avanzato, aperto al
sociale come si va delineando dopo la guerra perduta, dovrebbe invece sposare
la lettera e lo spirito della Costituzione repubblicana contribuendo con lealtà
a sensibilizzarne gli articoli più significativi nel segno di un socialismo
aggiornato. L’unica cosa da non dimenticare di Benito Mussolini mi sembra
infatti dover essere il principio secondo cui la rivoluzione nazionale italiana
non deve catalogarsi né di destra né di sinistra. Paradossalmente, tanto meno
di centro”. E Dell’Amico concludeva la sua lunga lettera con l’ingenuo
tentativo di poter ricondurre Almirante e il suo partito su posizioni non di
destra: “Ai quadri dirigenti missini qualcuno, e questo qualcuno potresti
essere tu, deve far leggere Sorel e Gentile, passando per le interpretazioni di
Ugo Spirito e di Antonio Gramsci. Senza ostinarsi a ritenere inesistente un
certo Karl Marx. E quando il Msi avrà compiuto questa revisione culturale,
potremmo rincontrarci. Purché non sia ormai tardi, visto che il mondo si muove,
non sta seduto a leccarsi le ferite, va avanti. In caso contrario, vi
ritroverete tutti a indossare la camicia bianca del conservatorismo e della
reazione, al servizio del pensiero unico imperiale americano”.
Undici giorni dopo, il 22
ottobre, Almirante gli risponde: “Non ti nego che molte delle tue
argomentazioni – gli precisa – mi paiono solide e convincenti. Ma io ho fiducia
nell’avvenire del Msi, cioè non tanto e non soltanto nella possibilità che il
Msi si affermi politicamente ed elettoralmente, quanto e soprattutto che
attraverso il Msi sia realizzata la nostra rivoluzione”. La successiva lettera
di Dell’Amico è quindi definitiva: “Non comprendo perché, allora, il Msi
rifiuti a tre anni dalla fine della guerra civile e dalla scomparsa di
Mussolini di fare autocritica. Perché non dichiarare solennemente e senza reticenze
che il fascismo sbagliò nel 1940 a entrare in guerra a fianco di Hitler, anche
se ritengo anch’io giusto, come del resto ho dimostrato sulla mia pelle e con
il mio sangue combattendo con il Barbarigo della Decima Mas sul fronte di Anzio
contro gli americani nel ’44, la scelta di mantenere fede comunque all’alleato
a sconfitta militare scontata? Perché non proclamare che le leggi razziali del
’38 rappresentavano un’infamia, peggio un errore. Comunque, un atto di
sudditanza alla Germania nazista, una devianza culturale dalla nostra
rivoluzione (così come tu ti esprimi), dalla cultura che s’ispira al
Risorgimento, al sindacalismo rivoluzionario di Sorel e Corridoni e
all’attualismo di Gentile? La dialettica fascismo-antifascismo non ha più senso
reale. E io personalmente, insieme ai miei amici del Pensiero nazionale, pensiamo a un’evoluzione in cui gli italiani si
ritrovino a-fascisti e a-antifascisti. Morto il fascismo dovrebbe essere in
punta di morte anche l’antifascismo… Non dovrebbe, ad esempio, un erresseista
sentirsi oggi più vicino ai socialisti e ai comunisti, partiti della classe
operaia, piuttosto che alla Dc e ai partitini che le fanno corona? È la tua
politica, caro Giorgio, che invece fa involontariamente il gioco dei partiti
del Cln tendente a tener fuori dal governo il Msi magari per bilanciare e
giustificare l’ostracismo alla sinistra. Non è infatti tanto il reducismo, con
i suoi alalà, drappi neri, teschi, saluti romani che mi infastidisce, quanto
l’appiattimento del partito da te guidato su programmi obsoleti, su politiche
superate, su parole d’ordine ripetitive e caduche…”.
Con queste parole,
scritte nel lontanissimo 1948, Dell’Amico rompeva definitivamente col
neofascismo. E avviava un suo percorso personale, prima di collaborazione con
Pajetta, Pecchioli e Togliatti per cercare di recuperare nel Pci i giovani
neofascisti in buona fede, poi – dopo la morte di Stalin – in area socialista e
socialdemocratica, divenendo segretario particolare di Ignazio Silone e
scrivendo su testate come La Giustizia,
Giovedì, Il Mondo. Racconterà queste sue esperienze in un libro del 1955, Il mestiere di comunista, introdotto da
Giuseppe Saragat e Ignazio Silone. Quindi, come scriveva già nel ’48 ad
Almirante – “personalmente, te lo dico per tranquillizzarti in nome di una
ormai annosa amicizia, non penso a impegni politici ma al giornalismo” – avviava
le sue iniziative editoriali. Con le quali si legherà a Enrico Mattei, a
Attilio Monti, a Amintore Fanfani (“nella sua avventura politica e ideale
ritrovavo, in grande, le tracce della mia piccola avventura fasciocomunista…”),
a Vittorio Sbardella, a Alberto Giovannini, a Giuseppe Saragat e a tanti altri protagonisti, grandi e piccoli, delle
vicende della seconda metà del Novecento. Ma, per quanto ci riguarda, le pagine
sulla sua “rottura” con Almirante rivestono storiograficamente un certo valore
per chiunque voglia indagare e capire le parti oscure e non ancora chiarite
sulle origini del Msi e il ruolo (al di là della buonafede dei suoi militanti,
dei suoi elettori e di molti suoi dirigenti) svolto concretamente da questo
partito.
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