Francesco Pullia
“Solo gli stati
anormali sono fecondi... il destino individuale, come realtà interiore,
irrazionale e immanente, ci è rivelato solo nel dolore, che rappresenta la sola
via che ci permette di comprendere in maniera più profonda i problemi personali”.
Inviate a diversi destinatari, e in particolare all’amico d’infanzia Bucur
Ţincu, le Lettere al culmine della disperazione (1930-1934) di Emil
Cioran (1911-1915), pubblicate da Mimesis a cura di Giovanni Rotiroti, nella
traduzione di Marisa Salzullo e con postfazione di Antonio Di Gennaro, non solo
non appaiono datate ma costituiscono un sano antidoto alla mediocrità sempre più
dilagante nella nostra società. Fustigatore dell’umana miseria e della viltà di
chi, concependo l’esistenza come “solo
un piacevole cullarsi”, sceglie di galleggiare nell’acquitrino del
“senso comune”, il filosofo rumeno in queste epistole giovanili lascia
presagire temi che caratterizzeranno, nell’arco degli anni, il suo pensiero: il
pessimismo catartico, la critica serrata e irriverente nei confronti del
razionalismo, la demolizione della sistematica, l’infiammata invettiva
antiumanistica, l’attacco, di matrice gnostica, all’influenza su questo mondo
di un demiurgo malvagio.
In alcune missive
risalenti al 1933-34 si ammette la fascinazione subita dal nazismo, conosciuto
nel corso della permanenza a Berlino e a Monaco. Tuttavia, di questo cedimento
Cioran non esiterà a provare profonda vergogna. Se, infatti, in una
corrispondenza del 1934 si spinge a riconoscere avventatamente nel Führer colui
che ha dinamizzato “con un soffio
messianico tutto un sistema di valori che il razionalismo democratico ha reso solamente
piatti e triviali”, più tardi, nei Quaderni, ammetterà di avere
condotto a Berlino, nel 1934-35, “una
vita da allucinato, da pazzo, in una solitudine quasi totale” e di
essere “segnato per sempre” da
quel soggiorno (considerato come “l’apice negativo” della sua vita): “Mi viene in mente all’improvviso”, scriverà,
“quel film sulla carriera di
Churchill. Ci sono alcune scene di vita tedesca […], in particolare una
manifestazione nazista. Hitler vi appare in primo piano, e ha tutta l’aria di
un pazzo da manicomio, con gli occhi persi, i tratti tesi e sconvolti, il viso
attonito. Se una pallottola lo avesse ammazzato si sarebbero salvate milioni di
vite. Ma la Provvidenza ha protetto il mostro e lo ha fatto vivere…”. La
riprova del repentino superamento dello sbandamento è attestata, d’altronde,
dalla costante demistificazione, in lui presente, di ogni sorta di fanatismo e
di infatuazione ideologica. Ben distante da una visione esaltante, il nazismo
gli si rivelerà, dunque, ben presto una delle tante sfumature della retorica
strisciante e predominante nella società. In queste lettere si riscontra
un’attitudine tutta particolare a “vedere
al di là delle forme simboliche d’espressione” e a demolire ogni forma
d’insopportabile ipocrisia, sia nel pensiero (come l’erudizione che “corrompe le inclinazioni filosofiche
dell’uomo, lo storicizza e lo sottrae alla pura contemplazione che è la fonte
della creazione filosofica”) che nella quotidianità (“la falsa modestia” tipica di chi è
mellifluo e frustrato). Il giovane Cioran denuncia un mondo appiattito nel
conformismo, “privo di distinzione
interiore, incapace di paradosso, profondità o irrazionalità”, trova
terreno prediletto in Pascal (“Tutto quello che ho pensato sul dolore e
sulla malattia l’ho trovato lì”, annota riferendosi ad una biografia del
filosofo francese), Kierkegaard, Nietzsche, Dostoevskij, Malraux (“un autore con cui ho grandi analogie
spirituali”), lancia i suoi strali all’indirizzo del giornalismo visto
come antitetico al filosofare.
“Più hai cultura”, si sfoga con
parole amare e veritiere, “più
il giornalismo rappresenta un grandissimo pericolo che ti spinge
progressivamente a smettere: ciò non vale per gli inconcludenti, per loro
costituisce un contesto stimolante per aspirazioni vaghe ed embrionali”.
Da questi semi nascerà di lì a breve il primo libro, Al culmine della
disperazione (1934), che lo imporrà alla pubblica attenzione, sancendo,
nero su bianco, la sua rottura con la filosofia occidentale.
“Al culmine della più terribile disperazione”,
scrive a Petre Comarnescu nel 1933, “mi
prende la gioia di avere un destino, di vivere una vita con la morte e le sue
successive trasfigurazioni, di fare di ogni istante un bivio. E sono fiero che
la mia vita inizi con la morte, a differenza della vita della maggior parte
degli uomini che finisce con la morte. Io sento la morte nel passato e il
futuro lo vedo come una specie di illuminazione personale… Come puoi notare da
ciò, ho finito di saldare completamente i miei conti con la filosofia ufficiale”.
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