Luciano Lanna
«James
Joyce non è morto: vive a Montreal e si fa chiamare Leonard Cohen» scrisse un
quotidiano statunitense nel 1966 quando venne pubblicato il suo romanzo Beautiful
Losers (“Magnifici perdenti”).
Forse il paragone con Joyce era
un po’ azzardato ma Leonard Cohen prima
di diventare il cantautore che conosciamo si era comunque già affermato come un poeta e
uno scrittore di primo piano. E tutta la sua biografia è andata avanti
all’insegna dell’ossimoro e delle improvvise conversioni. Per rendercene pienamente
conto basta dare un’occhiata in libreria a Il
gioco preferito (minimum fax, pp. 244, euro 9,00), il suo primo romanzo,
pubblicato proprio cinquant’anni fa, nel 1963, e ora tradotto in italiano dalla
casa editrice romana che sta riproponendo tutta l’opera letteraria di Cohen.Questo The Favourite Game è stato definito “uno
dei migliori romanzi canadesi del Novecento”, e venne subito paragonato – a proposito
di Joyce – al Ritratto dell’artista da
giovane. È un’esuberante romanzo di formazione, introspettivo e picaresco,
che raggiunse in breve lo status di culto. Racconta la storia di Lawrence
Breavman, figlio unico di una ricca famiglia ebrea di Montreal e alter ego dell’autore.
Costruito per capitoli che sembrano cortometraggi, descrive la reazione di
Lawrence alla morte del padre, il rapporto controverso con la madre, la sua
relazione controversa con la tradizione e la religione ebraica, le scorribande on the road con l’amico Krantz, le
ambizione letterarie e poetiche del protagonista, le avventure erotiche e,
infine, la scoperta dell’amore.
Per
inquadrarlo nella cornice di tutto l’itinerario intellettuale del suo autore è
però opportuno dare un’occhiata anche a Una
vita di Leonard Cohen di
Ira B. Nadel (Giunti), la più completa biografia del cantautore canadese mai
edita, oltretutto scritta da un grande studioso di letteratura contemporanea. Intellettuale
davvero colto e raffinato, Cohen non solo ha infatti scritto canzoni
indimenticabili come Suzanne o Joan d’Arc, entrambe
tradotte in italiano da Fabrizio De André, diventando un mito per l’immaginario
degli anni Sessanta e Settanta al pari di Bob Dylan, ma
prima di salire sul palco e di incidere un disco (accadde quando aveva già 33
anni, nel 1967), s’era affermato come una luminosa promessa della letteratura
canadese, con una serie di preziose raccolte poetiche che stanno da tempo nelle
antologie scolastiche.Tutto
era iniziato nel 1954 quando Leonard all’università s’era iscritto al corso di
poesia di Louis Dudek, grande poeta e critico, dedicato a Ezra Pound, con
cui il docente aveva un rapporto di interlocuzione. E Cohen pubblicò le sue
prime poesie sulla rivista letteraria CIV/n, il cui titolo
prendeva spunto da una frase contenuta in una lettera scritta da Pound a Dudek:
«CIV/n: un lavoro inadatto a un uomo solo», dove CIV/n era una forma abbreviata
per civilizzazione. Scopo del progetto doveva essere quello di «proporre una
poesia che fosse una rappresentazione vitale delle cose per quello che sono,
utilizzando (se necessario) un linguaggio forte, o qualsiasi altro linguaggio
purché il lettore sia spinto a osservare con occhi attenti il mondo intorno a
lui». Una curiosità: sul quarto numero della rivista era ospitato anche un
lungo saggio su Ezra Pound del critico e sociologo fascista Camillo Pellizzi
oltre a un editoriale di Dudek dedicato all’internamento dell’autore dei Cantos nel manicomio di St. Elizabeth.Qualche
anno dopo il giovane Leonard frequenterà comunque l’ambiente bohèmien del campus della Columbia
University e del Greenwich Village, incontrandosi con esponenti della beat generation come Allen Ginsberg e Jack Kerouac, «quel tipo di genio – scrisse di
quest’ultimo – che somiglia a un grande ragno scintillante, un ragno capace di
tessere la grande tela dell’America». Poi una lunga vita di esperimenti,
incontri, innamoramenti, donne, vagabondaggi, crisi e illuminazioni esoteriche,
dimostrando la grande capacità di trasformarsi da scrittore con tanto di crismi
accademici in rockstar internazionale. Va ricordato il suo periodo greco,
nell’isola di Idra, tra il 1960 e il 1963, dove si era installata una
comunità di scrittori e artisti stranieri. In quegli anni, considerato un
intellettuale di punta, Leonard viene ad esempio invitato a confrontarsi a
Parigi con figure come Mary McCharty, Malcolm Muggeridge e Romain Gary sul tema “C’è crisi nella cultura
occidentale”.Si
abbevera poi alla “quarta via” di Gurdjieff e ai Ching, conosce e
frequenta Bob Dylan, Joan Baez, Joni
Mitchell, Janis
Joplin, Nico dei Velvet Underground… Nel 1966 comincia a
prendere sul serio l’idea di una carriera musicale nel momento stesso in cui si
rese conto che come scrittore non sarebbe riuscito a guadagnarsi da vivere in
modo decente. E il 26 dicembre 1967 viene pubblicato senza annuncio ufficiale Songs
of Leonard Cohen, anche se come anno di uscita verrà sempre
indicato il mitico 1968. Da allora, oltre venti album, e una continua ricerca
non solo musicale. Lui, ebreo di famiglia e convinzione, si incamminerà nei
sentieri del misticismo sufi, del buddismo, dello zen ma anche di un certo
cattolicesimo: in particolare si appassionò alle vicende di Catherine Tekakwitha,
un’indiana irochese del popolo dei kohawk, all’epoca in attesa di
beatificazione, che sarà la prima nativa canadese a essere beatificata da Papa
Ratzinger. Una statua della beata si trova infatti nella casa di Cohen a
Montreal e le sue immagini adornano le pareti delle sue case e dei suoi uffici.
E ogni volta che va a New York Leonard porta fiori alla sua statua di fronte
alla cattedrale di San Patrizio. «Il mistero – scriverà – è sempre radicato nel
fatto quotidiano, il mistero ha un’entrata stretta...». Non a caso, nel 1996, Leonard viene anche ordinato monaco zen.Ormai
vive a Montreal, lavorando attorno una scrivania di pino interamente sgombra:
«La strada è troppo lunga, il cielo è troppo vasto e il cuore errante è
finalmente senza dimora». Come definire insomma un cantautore ebreo che pure
nel lontano 1970 era stato addirittura accusato di fascismo? Era infatti in
corso il festival pop di Aix-en-Provence e un gruppetto di maoisti presenti tra
la folla contestò il pagamento del biglietto e il “fascista” Cohen. Sul palco
vennero lanciate alcune bottiglie dopodiché lo scoppio di un faro
dell’illuminazione fece temere che qualcuno avesse tentato di sparare alla sua
band. Leonard, molto coraggiosamente, prese il microfono e sfidò i contestatori
a salire sul palco, facendo presente che lui e i suoi musicisti erano armati
oltreché provenienti dal feroce e indomito Sud degli Stati Uniti: «Se non vi
piace quel che state ascoltando, prendete voi il microfono, noi continuiamo a
suonare». L’esibizione venne portata a termine. La band di Cohen da quel giorno
prese il nome di The Army, l’esercito. Anche questa, solo l’ennesima apparente
contraddizione di Leonard.
L'Arte...l'esercito non proibito delle anime potenti.
RispondiEliminaEnzo