A grande richiesta, la seconda puntata della "Storia del Secolo" (autori L.Lanna e A.Terranova) già pubblicata sul gruppo Il Secolo d'Italia: la storia
Annalisa Terranova
Dopo la direzione di Bruno Spampanato al timone del Secolo
arrivò Cesco Giulio Baghino, anche lui ex combattente della Decima, all’epoca
vicino alla sinistra missina guidata da Giorgio Almirante, personaggio cui
Baghino restò sempre fedele. Baghino fu anche presidente dell’Uncrsi (Unione
combattenti Rsi) e nel 1995 rifiutò di aderire ad Alleanza nazionale. Era un
uomo piccolo ma passionale, con una voce inconfondibile. Per nulla ambizioso,
seppe sempre stare al suo posto. La sua concezione del Msi era questa:
“Leggevamo la sigla Msi come acronimo di Mussolini Sei Immortale”. Alla fine
del 1952, si presentò a Baghino direttore del Secolo un giovanissimo Gaspare
Barbiellini Amidei che, appena diciassettenne, iniziò il praticantato. “Al
Secolo – raccontò in seguito nella sua autobiografia – mi aveva portato il mio
cognome, reso famoso negli anni della guerra dalla medaglia d’oro alla memoria
di mio padre Bernardo, caduto eroicamente in Grecia”. Era stato Almirante a
mandarlo da Baghino. Gaspare Barbiellini Amidei diventerà poi caporedattore del
Secolo, per passare agli inizi degli anni Sessanta al Giornale d’Italia e
approdare infine al Corriere della Sera dove, tra il 1973 e il 1984, sarà
vicedirettore vicario. Si devono a lui gli Scritti corsari di Pier Paolo
Pasolini: editoriali in prima sul Corriere invisi alla sinistra. Dopo Baghino
il Secolo fu diretto da Giorgio Almirante insieme con Filippo Anfuso. In una
certa fase il duo fu affiancato da Franz Turchi, che aveva trovato i
finanziamenti per fondare il giornale vendendo la sua collezione di pastori
napoletani del Seicento (e così si sfata anche la leggenda nera secondo cui il
Secolo era stato foraggiato con i soldi dei servizi segreti).
Era costume al Secolo assumere i figli dei fascisti. Un iter
simile a quello di Gaspare Barbiellini Amidei portò a collaborare al giornale
il poi famoso Folco Quilici, figlio di Nello, braccio destro di Italo Balbo.
Anche Enrico Vaime scrisse sul Secolo, come lui stesso ha raccontato
recentemente, per via di uno zio fascista che era stato alla marcia su Roma. Fu
sempre Almirante a garantire al Secolo la collaborazione di Cesare Interlandi,
figlio di Telesio e anche quella di Concetto Pettinato, già inviato di esteri
del quotidiano La Stampa di Torino, che diresse per volere di Mussolini durante
la Rsi. Pettinato, legato agli ideali di un fascismo intransigente e restìo al
compromesso con la Dc, lasciò il Msi nel 1952, dopo il congresso dell’Aquila, e
spiegò le ragioni del suo addio in un’intervista in prima pagina proprio sul
Secolo: “Perché me ne vado? Mi è venuta meno la speranza di potere, restando
nel partito, influire sul suo indirizzo politico nel senso indicatoci da quel
programma di Verona che fu insieme l’epicedio e la catarsi del Ventennio. Da un
pezzo io e i miei amici rimproveravamo al Movimento di avere dimenticato la
lezione del 25 luglio e il retaggio ideale e morale dei seicento giorni per
ricadere nella carreggiata del fascismo deteriore”. Dunque gli oppositori, nel
1952, avevano ancora un diritto di tribuna…
Il mio praticantato iniziò invece nel febbraio 1990. Fu Pino
Rauti, da poco giunto al vertice del Msi, ad assumermi. Io all’epoca insegnavo
in una scuola media di Primavalle ma già collaboravo alla terza pagina (come ho
già scritto su invito di Gennaro Malgieri) recensendo per lo più libri di
storia medievale (la mia vera passione) che Aldo Di Lello, caposervizio della
cultura, passava senza fare storie, come se a qualcuno potessero interessare
studi su Anselmo d’Aosta o sui libri penitenziali dell’XI secolo. Fu Tony
Augello a portarmi da Pino Rauti per chiedergli di farmi entrare al Secolo.
Rauti disse: “E’ una buona idea” e mi raccomandò di tenere duro: “Le redazioni
non sono ambienti facili, poi lì sono tutti almirantiani, non mi possono
vedere”. Tony sorrideva, gli disse qualcosa per rassicurarlo a proposito del
mio carattere non proprio fragile. E così, in un giorno di febbraio, mi
presentai all’allora direttore Giano Accame. Ero certa che mi avrebbe mandato
al servizio cultura. Invece Accame era di tutt’altro avviso: “Ci servono buoni
redattori al politico, presentati al caposervizio Enzo Palmesano, lavorerai con
lui”. Dire che fui accolta freddamente è un eufemismo. Erano tutti molto
diffidenti, perché rautiana e perché femmina. Mi consideravano una
super-raccomandata. Del fatto che io scrivessi dotti articoli sul medioevo non
fregava nulla a nessuno. Poi scoprii che nei giornali la gavetta non si fa
scrivendo, ma facendo gli abusivi. C’era solo un’altra ragazza, che lavorava
con Aldo Di Lello e con Carlo Cozzi al servizio Spettacoli, Antonella
Ambrosioni. Il mio lavoro all’inizio consisteva in questo: dividere le agenzie
eruttate in continuazione da una telescrivente (oggi arrivano sul pc, all’epoca
no) per argomenti e per servizi. Poi consegnarle ai vari capiservizio. Se ti
sfuggiva qualcosa d’importante (perché le notizie importanti le dovevi
segnalare) s’incazzavano tutti e parecchio. Gli errori te li facevano pesare. Ricordo
che dopo il mio primo giorno di lavoro andai da Tony e gli dissi: “Io da quel
branco di matti non ci torno neanche morta, il giornalismo non fa per me”. Lui
fece sembrare il mio sfogo come una specie di defezione da un’alta missione
politica. Insomma, mi ha fregato. Il giorno dopo tornai. E dopo una settimana
arrivò in qualità di caporedattore anche Flavia Perina, che al Secolo aveva
fatto il praticantato e poi era andata a lavorare a Telemontecarlo e quindi al
settimanale Il Sabato. Al primo comitato centrale dopo la mia assunzione
Francesco Storace, che pure era stato tra i più gentili nell’accogliermi al
Secolo, fece un intervento di fuoco contro il segretario Rauti: “Qual è la sua
politica? Quella di infiltrare i suoi fedelissimi al Secolo? È una vergogna che
non si è mai vista…”. Era chiaro che ce l’aveva con l’assunzione mia e di
Flavia Perina. Appena lui finì l’intervento io lo andai a cercare come una
furia nella sala stampa: “Ma come cazzo ti permetti?”. E lui: “Eddai, te che
c’entri? Sono cose che si devono fare, è la politica… Non te la prendere”. In
seguito Storace imparò a “tollerarmi”. Faceva troppi scherzi e non si riusciva
a tenergli il broncio. La “pace” fu siglata quando mi chiese di leggergli e
correggergli un articolo. Un redattore anziano che si rivolge a un praticante…
Fu il suo modo per darmi finalmente il benvenuto.
Il più felice di tutti per la mia assunzione era mio padre.
Lui, quando cominciarono a uscire i miei articoli in terza pagina, si faceva
fare una cinquantina di fotocopie e le distribuiva ai suoi amici. Che io
entrassi al Secolo era il suo sogno. Ne aveva parlato con Carlo Casalena (all’epoca
consigliere regionale del Msi) che lo aveva dissuaso: “Non se ne parla. Là i
posti sono tutti già prenotati. C’è una fila…”. Quando me l’aveva riferito si
aspettava che me ne rammaricassi. Io invece risposi: “Dai papà, ma che ci
frega? Tanto noi giovani il Secolo non lo leggiamo, fa schifo, non lo vedi?”. E
pensavo di avere indorato la pillola. Invece avevo aggiunto un dispiacere a un
altro dispiacere. Comunque, quando fui assunta, era raggiante.
Il primo servizio “lungo” che mi venne affidato riguardava
una polemica tra Francesco Cossiga, all’epoca presidente della Repubblica, e il
Csm. Io partii in quarta citando Montesquieu e la divisione dei poteri. Aldo
Giorleo lo lesse e lo rilesse. Poi lo gettò nel cestino. “Ma le notizie? Ce le
vuoi mettere le notizie? Siete fissati co’ sti commenti del cazzo. Riscrivilo”.
Io lo riscrissi, e la seconda volta secondo me era venuto molto peggio della
prima. Invece fu pubblicato. Poi, solo poi, ho imparato che per cominciare un
pezzo con una dotta citazione te lo devi poter permettere e io non me lo potevo
permettere. Di Aldo Giorleo racconterò altre cose: intanto mi viene in mente
quando è morto, nel 2002. Era ricoverato alla clinica Città di Roma, al
quartiere Monteverde. Andai a trovarlo una mattina con Flavia Perina. Era molto
dimagrito, lo sguardo già appannato, e non parlava quasi più. Però fu felice di
vederci e riuscì a dirci con la voce di sempre: “Ciao bellezze!”. Si spense
quella stessa notte. Non dico del lutto di tutti noi del Secolo, perché Giorleo
detestava la retorica (anche questo che ho scritto, non lo avrebbe fatto
passare. Che è questo “si spense”? Si scrive “è morto Tizio e Caio” senza tanti
giri di parole…).