venerdì 6 febbraio 2015

Brasillach, un contestatore al servizio della vita





Luciano Lanna 

Oggi è la volta di Robert Brasillach, essendo il 6 febbraio il giorno della ricorrenza della sua morte. Infatti, a tanti anni di distanza, qualcosa va aggiunta a quanto è stato annotato negli anni scorsi. Qualcosa che ha a che fare anche con il trattamento riservato ad altri grandi scrittori o pensatori del Novecento: Ezra Pound e Ernst Junger, Céline o Giovanni Gentile, Heidegger o Drieu La Rochelle… Certi ambienti, forse per via una sorta di riflesso condizionato, scattano subito a rievocare il santino, il martire, il perseguitato, quasi tralasciando e censurando i contenuti, le suggestioni e le idee di cui le opere di cui gli autori in questione sono state portatori. Eppure, guardando altrove, quasi nessuno scrive di Federico Garcìa Lorca, di Majakovskij, di Cesare Pavese o di Piero Gobetti limitandosi alle fini tragiche della loro biografie oppure ai loro suicidi. Ma anche questo è un segnale dello sforzo che ancora occorre per restituire al dibattito pubblico e all’immaginario condiviso una visione serena e oggettiva della cultura – di tutta la cultura – del secolo scorso. C’era forse bisogno che fosse il Corriere della Sera, e solo nel 2007, a titolare un lungo articolo “Se Evola diventa il filosofo della libertà”? E c’era bisogno di un filosofo della scienza come Giulio Giorello per scrivere un “Elogio libertario di Ezra Pound”?

Brasillach, allora, di cui una casa editrice (Caravella) pubblicò negli anni Sessanta i primi testi tradotti. Il 6 febbraio 1945, ad appena tre mesi dalla vittoria degli alleati in Europa, Brasillach veniva condannato a morte dal governo della Liberazione francese col reato di collaborazionismo. A niente varrà un appello per la grazia sottoscritto dalla stragrande maggioranza degli intellettuali francesi, da François Mauriac ad Albert Camus. Oltretutto, nei suoi libri c’era il senso del percorso di tutta una generazione. Uno storico come Jean-Louis Loubet Del Bayle cercando, nei primi anni ’70, di rievocare quella temperie in Francia titolò infatti un suo importante saggio I non conformisti degli anni Trenta, presentandolo proprio come il «diario di una generazione». La quale era, nei fatti, la seconda generazione di “contestatori” del ’900, i francesi che avevano 25 anni nel 1930: Robert Aron, Robert Brasillach, Daniel Rops, Jean Lacroix, René Daumal, Alexandre Marc, Thierry Maulnier, Emmanuel Mounier, Denis de Rougemont e qualcun altro poco più grande d’età, come Drieu, Céline, Abel Bonnard, Alphonse de Chateaubriant, Lucien Rebatet… Benché di origini sociali, culturali e religiose diverse, essi, per solidarietà di generazione, collaborarono alle stesse riviste, parlarono lo stesso linguaggio e sognarono insieme di rinnovare e cambiare la Francia e l’Europa del loro tempo…In Italia, fino al secondo dopoguerra, di Brasillach in realtà non si seppe più di tanto. Sappiamo solo che Alberto Moravia nel ’41 fece pubblicare la traduzione di un suo racconto (“Morte improvvisa”, del ’35), inizialmente apparso sulla rivista francese Je suis partout che era diretta proprio dal giovane intellettuale francese. Da noi, in realtà, solo nel maggio 1961, e solo grazie al coraggio di un editore non-conformista e di area socialista-libertaria come Massimo Pini, arriva nelle librerie Romanticismo fascista di Paul Sérant, con cui per la prima volta veniva portata alla diretta conoscenza nel nostro contesto culturale quell’importante movimento generazionale. Le 350 pagine di quel saggio – ripubblicato poi nel 1971 dalle Edizioni del Borghese curate da Claudio Quarantotto – provocheranno curiosità, traduzioni, approfondimenti. E il primo interprete sarà Giano Accame con il suo saggio “Contraddizioni di un romanticismo a destra” che solleciterà anche una lunga e articolata risposta dello stesso Sérant.




È del 1964, come dicevamo, la pubblicazione per le edizioni Caravella di Lettera a un soldato della classe ’40, un testo coinvolgente, un diario dal carcere, in cui Brasillach iniziava con «caro ragazzo», rivolgendosi ai giovani della generazione successiva alla sua e si concludeva così: «Tu che mi leggerai, e che vivrai in un mondo diverso, avrai fatto la tua scelta, e guarderai le nostre disgrazie, contemporanee alla tua infanzia, con la stessa obiettività storica che noi abbiamo avuto per la prima grande guerra del secolo. Ti chiedo solo di non disprezzare le verità che noi abbiamo cercato, gli accordi che abbiamo sognato al di là di ogni disaccordo, e di conservare le due sole virtù alle quali io credo: la fierezza e la speranza». Ma perché, a differenza di altri “maledetti” come Céline o Drieu, Brasillach non sfonderà davvero mai in Italia nella grande editoria? Ce lo spiegava, già nel 1965, Giano Accame: «Perché Drieu è attuale, Céline è ancora attuale, e Brasillach non lo è? Perché Drieu e Céline erano dei disperati e Brasillach era pieno di felicità». Per cui un certo ambiente ne ha apprezzato più la dimensione tragica e l’eroismo della fine che la sua estetica e la sua visione della vita… Tardi, troppo tardi, abbiamo infatti riscoperto I sette colori, Il nostro anteguerra e La ruota del tempo. Brasillach, il poeta morto giovane, è stato soprattutto il cantore della giovinezza, della bellezza, della modernità con l’anima, della speranza, del cambiamento, dell’ottimismo… Ha scritto Stenio Solinas: «Brasillach sta a Stendhal così come Flaubert sta a Céline. Per i primi la vita vale la pena d’essere vissuta, per i secondi l’orrore e la stupidità che ne sono alla base fanno sì che essa non meriti altro che la sua descrizione, come un biologo che osservi al microscopio una coltura di batteri». E aggiunge: «Il grande equivoco sul quale poggia il giudizio, ideologico più che critico, nei confronti di Brasillach è quello di non perdonargli proprio questo atteggiamento di fronte alla vita». È vero l’ambiente degli “sconfitti” ha sempre preferito il martire allo scrittore.

Ma Brasillach, per dirne una, era invece un contestatore al servizio della vita. Era affascinato come pochi dalla magia della modernità: amava il jazz, il teatro, il cinema, i cartoni animati, la musica, i caffè, tutto ciò che era estetica. Niente di decadente, niente di recriminatorio, tanto meno nessuna tentazione conservatrice o passatista. Il fascismo stesso lui lo interpretò in maniera molto personale e intellettuale, come la rivolta dei giovani contro la decadenza e la bruttezza. «La gravità – scriveva – non è tutto nell’esistenza, e persino assai meno importante della leggerezza». Libertario, in fondo, non conformista, ribelle e vitalista, quasi anarchico. Gli piacerà ai tempi dell’occupazione tedesca la battuta di un ragazzo deluso dall’esito autoritario, oppressivo, moralistico e bigotto dei fascismi storici: «In fondo noi siamo degli anarco-fascisti». Una inclinazione che, a ben leggere, nella visione di Robert Brasillach è tutt’uno con l’essenza della giovinezza, il grande mito politico del Novecento. Un mito che Brasillach così definiva: «Spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione».

scritto nel 2012

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