martedì 17 febbraio 2015

E nell'Italia bigotta e dc quel giorno nacque il Piper



Luciano Lanna

Il Piper compie cinquant’anni. Quel locale, che apriva i battenti alle 21 e 30 del 17 febbraio 1965, sarà la culla italiana di tutto ciò che fermentava nelle giovani generazioni alla metà degli anni ’60. “Il Piper – si leggeva in Roma alternativa, una guida del 1975 – fu il centro della Roma beat, freak, pop e rock”. Attraverso il Piper fece irruzione anche da noi la cultura beat: dapprima circoscritta alla sola musica elettrificata e amplificata, il termine si estenderà a definire un abbigliamento, un look, un’estetica, un modo di esprimersi e di sentirsi lontani dai vecchi schemi. Tutto parte dall’idea di due personaggi, un avvocato e un imprenditore, che volevano aprire un locale sul modello di quelli che i giovani frequentavano a Londra e a New York. Nacque l’idea del Piper, che tradotto in italiano suonava pressappoco come “pifferaio” o “zampognaro”. In realtà, soltanto le opere d’arte con cui fecero decorare il locale di via Tagliamento 9, nel quartiere Coppedè, bastavano e avanzavano ad attrezzare un vero e proprio museo d’arte contemporanea. C’erano due Andy Warhol, dei Rotella, degli Schifano, dei Rauschenberg, dei Manzoni… Pop art, beat generation e “Beatles revolution” trovavano un luogo di celebrazione a Roma. Per la serata d’inaugurazione i due fecero realizzare manifesti a sfondo rosso su cui campeggiava l’immagine di una bella ragazza svedese. Sopra c’era scritto: “Apertura del Piper 17 febbraio”. Ha raccontato Bornigia: “Nell’Italia democristiana, pruriginosa e bigotta del secondo dopoguerra, l’utilizzo di un’icona femminile, per di più scandinava, come logo di una neonata sala da ballo, venne subito letto, e in fondo era da leggersi, come provocazione e intento programmatico, come il segnale di una rottura che era nell’aria e che noi, più o meno consapevolmente, stavamo veicolando…”.
A rileggere le stesse biografie dei due, entrano subito in crisi i codici e gli schemi convenzionali di identificazione politico-culturale. Il Piper – ha scritto il giornalista e scrittore Paolo Conti – “era infatti la scommessa economica e culturale dell’avvocato Alberico Crocetta, a 15 anni volontario nella Decima Mas di Junio Valerio Borghese, a 40 innamorato del rock e della pop art, e dell’imprenditore Giancarlo Bornigia…”. Anche il quale, del resto, si è raccontato così: “A casa mia non si faceva politica attiva, ma mio padre era fascista, stava dalla parte di Mussolini…”. Suo padre era stato uno dei primi a vendere automobili a Roma ed era un grande tifoso della Lazio, della quale fu anche presidente nella stagione ’54-55… Giancarlo cercava una sua strada e per tre anni va a lavorare in Africa. Al ritorno l’idea del locale insieme all’amico Alberico. “Erano anni che sognavano di far ballare i ragazzi in un locale popolare come questo” dirà all’inaugurazione l’avvocato. “Fu in America, a New York – ha raccontato Gianni Borgna nel suo fondamentale saggio Il tempo della musica. I giovani da Elvis Presley a Sophie Marceau – che andando da un night a un altro gli venne in mente di aprirne una a Roma sul tipo di Small Paradise, un noto locale di Harlem”. Trovati oltre 100 milioni di lire, fu Crocetta a individuare il posto, un nuovo palazzo a due pazzi da piazza Buenos Aires. “Era un ritaglio di Londra affacciato sui Parioli” lo definì Bornigia. Dentro si suonava una musica nuova, si ballava in modo nuovo. In poche settimane l’onda lunga montò, ben oltre i confini di Roma. “Il Piper – ha spiegato Tiziano Tarli in Beat italiano – era una zona franca rispetto all’autoritarismo di tutte le istituzioni. Ci si vestiva come voleva, si ballava scatenati senza inibizioni o si sedeva per terra. I ragazzi potevano esprimersi e comunicare con le nuove regole che stavano cercando. Era un posto liberatorio, senza formalismi”.
Lì dentro si dà convegno tutte le sere il meglio del beat musicale italiano: i Rokes di Shel Shapiro, l’Equipe 84 di Maurizio Vandelli, i Dik Dik, Renato Zero, Caterina Caselli e, soprattutto, Patty Pravo, che verrà lanciata proprio come “la ragazza del Piper”. Lì passano e si esibiscono, tra gli altri, i Rolling Stones, i Byrds, i Procol Harum, i Pink Floyd, i Genesis, David Bowie… Da lì parte il fenomeno che coinvolgerà i giovani di tutta Italia portando, tra l’altro, nel corso del festival di Sanremo del 1966, alla diffusione di un Manifesto del beat italiano. A stilarlo sono un giovane cantautore esordiente, Lucio Dalla, il paroliere Sergio Bardotti e un altro ex della Decima Mas, ma innamoratosi della rivoluzione di Guevara e Castro, come l’eretico pop Piero Vivarelli (regista, sceneggiatore, autore delle prime canzoni di Celentano). In quel manifesto, tra l’altro, si leggeva: “Noi attingiamo alla tradizione, ma non la rispettiamo. Una tradizione è valida solo in quanto si evolve. Altrimenti interessa solo i musei”. E ancora: “Siamo senza alcuna riserva, decisamente contro tutti quelli che non la pensano come noi. Prima che qualcun altro ce lo dica, riconosciamo subito da soli la necessità di aderire a questa tendenza che, partendo da Ray Charles, passa attraverso i Beatles e Bob Dylan”.
Ovviamente la reazione dei benpensanti, democristiani e comunisti essi fossero, non tardò ad arrivare. Ha raccontato Bornigia:  “Il questore di Roma, Di Stefano, il 21 dicembre 1966 chiuse il locale nel pomeriggio dicendo che costituivamo ‘mezzo di distrazione dei giovani con conseguente sviamento da occupazione e studi’. Pochi giorni dopo un’interrogazione Dc, firmata da Agostino Greggi e altri, chiedeva al Viminale di applicare la norma in tutta Italia perché  ‘è dovere costituzionale dei genitori educare i figli e sottrarli ai richiami di chi offre suggestioni per lucro’…».

Da sinistra, erano le femministe di Noi donne ad andare all’assalto, già il 27 marzo 1965: “Il Piper è un mastodontico ingranaggio culturale basato sul mondo dello ye ye, dello shake che dietro l’aspetto della ribellione nasconde invece una rivolta prefabbricata che porta stampato il marchio dell’approvazione ufficiale…”. Il sociologo Alberto Abruzzese lo ha spiegato bene: “Il Piper e la nuova musica beat? La routine del Pci non consentiva di riconoscere come ‘cultura’ tutto questo anche per una semplice questione di linguaggio: erano nuovi consumi culturali, come la tv, che vedevano il partito ben poco attento. E poi era roba venuta comunque dall’America, quindi suscettibile di riserve…”. Infine è stato Tito Schipa Junior, il quale nel 1967 proprio lì su musiche di Bob Dylan aveva messo in scena Opera beat, a ricordarlo a Paolo Conti in occasione del quarantennale del Piper: “Nel coro cantava anche un giovanissimo Giuliano Ferrara, alla batteria c’era Achille Manzotti, poi produttore cinematografico. La sinistra ufficiale italiana ci giudicava borghesi orientati verso ciò che loro consideravano disimpegno”.  Quella del Piper, concludeva Schipa Junior, “fu al contrario una rivoluzione, nata dalla borghesia: come tutte le vere rivoluzioni”. Un interrogativo è quindi lecito: non è che proprio quel vento di cambiamento, quello espressosi – anche attraverso il Piper – tra il 1965 e il 1969, fosse in realtà la vera rivoluzione dei costumi e della mentalità la quale, invece, i plumbei e ideologici anni ’70 hanno poi corrotto, deviato e  interrotto? Non è, insomma, che più che dalla celebrazione della battaglia di Valle Giulia e dalla successiva militarizzazione del mondo giovanile dovremmo, semmai, ripartire – ricercando cinquant’anni dopo la via italiana alla modernizzazione – proprio dallo spirito della Piper generation?

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