domenica 28 settembre 2014

Mario Tronti e l'insensatezza oggi di definirsi di sinistra (o di destra)




“La Storia è diventata piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio, il lamento, la banalità…”. A parlare è Mario Tronti, filosofo e uomo politico. È stato negli anni Sessanta il teorico dell’operaismo, dirige la Fondazione Centro per la Riforma dello Stato, ha da poco terminato un libro sulla sua biografia intellettuale. Ormai ama frequentare soprattutto il pensiero di Simone Weil, Aby Warburg, Walter Benjamin, Rosenzweig: “Una costellazione – dice – anomala, e irriferibile alla tradizione ortodossa, uomini postumi”. Lo confessa a Antonio Gnoli, che gli dedica la consueta intervista domenicale su “la Repubblica”. Interessante e profondo il passaggio in cui Tronti risponde alla domanda se “si sente ancora un uomo di sinistra” (sia ben chiaro che la stessa cosa, specularmente, si porrebbe, con un analogo intellettuale coerente e coraggioso, con l'essere e il definirsi "di destra").
La risposta è significativa, non solo pensando che viene da un senatore del Pd ma anche perché esprime compiutamente la banalità di ridurre i conflitti e le dinamiche dell’epoca dentro l’orizzonte destra/sinistra “Ma come potrei essere di sinistra – ammette Tronti – con il pessimismo antropologico che ricavo dal mio realismo? Dichiararsi illuministi, storicisti, positivisti, come fa in qualche modo la sinistra, è illudersi che i problemi che abbiamo di fronte siano semplici”. Invitato, comunque a “collocarsi” il pensatore confessa: “Sto, per così dire, su una specie di confine che ha ben descritto Simone Weil: non attraversare, ma non tornare neppure indietro. Al tempo stesso penso che il legno storto dell’umano per sopravvivere abbia bisogno di qualche forma di fede”. E per finire: “Il progressismo  taglia corto Tronti  è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima”. 

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