“La Storia è diventata
piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio, il lamento, la
banalità…”. A parlare è Mario Tronti, filosofo e uomo politico. È stato negli
anni Sessanta il teorico dell’operaismo, dirige la Fondazione Centro per la
Riforma dello Stato, ha da poco terminato un libro sulla sua biografia
intellettuale. Ormai ama frequentare soprattutto il pensiero di Simone Weil, Aby
Warburg, Walter Benjamin, Rosenzweig: “Una costellazione – dice – anomala, e
irriferibile alla tradizione ortodossa, uomini postumi”. Lo confessa a Antonio
Gnoli, che gli dedica la consueta intervista domenicale su “la Repubblica”.
Interessante e profondo il passaggio in cui Tronti risponde alla domanda se “si
sente ancora un uomo di sinistra” (sia ben chiaro che la stessa cosa, specularmente, si porrebbe, con un analogo intellettuale coerente e coraggioso, con l'essere e il definirsi "di destra").
La risposta è significativa, non solo
pensando che viene da un senatore del Pd ma anche perché esprime compiutamente
la banalità di ridurre i conflitti e le dinamiche dell’epoca dentro l’orizzonte
destra/sinistra “Ma come potrei essere di sinistra – ammette Tronti – con il
pessimismo antropologico che ricavo dal mio realismo? Dichiararsi illuministi,
storicisti, positivisti, come fa in qualche modo la sinistra, è illudersi che i
problemi che abbiamo di fronte siano semplici”. Invitato, comunque a “collocarsi”
il pensatore confessa: “Sto, per così dire, su una specie di confine che ha ben
descritto Simone Weil: non attraversare, ma non tornare neppure indietro. Al
tempo stesso penso che il legno storto dell’umano per sopravvivere abbia
bisogno di qualche forma di fede”. E per finire: “Il progressismo – taglia corto Tronti – è oggi la
cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre
meglio e più avanzato di ciò che c’era prima”.
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