Fabrizio Baleani
Per Cèline
lo stile è voce, talvolta è petit musique
e il suo solido corpo sonoro vibra nell’emissione di un solo fiato, un unicuum d’armonie impetuose che schiva
le minacce d’interruzione immaginabili in un lucido, emotivo, lirico getto di
parole. Un esempio di partitura musicale-letteraria intensa, concitata,
ininterrotta, sgorgante da timbri vocali caldi, ruvidi e profondi al contempo,
è il monologo La notte poco prima della
foresta (Gremese editore, pp. 62, euro 10,00), del drammaturgo francese
Bernard Marie Koltès. Egli, indimenticabile collaboratore di Patrice Chereaux,
è forse l’ultimo e più radicale maledetto della letteratura francese. Della
maledizione s’infestò il suo corpo, divorato, nel 1989, dal più atroce e
assurdo morbo della fine del Novecento, quel lembo di tempo senza direzione
adatto al suo nomadismo inquieto diviso tra l’attrazione del futuribile degrado
newyorkese, i segreti dell'Africa nera e lo smarrirsi nei meandri desolati di
una potenza in rovina, l’Unione Sovietica.
Di questo
istinto girovago sono pervase le sue pagine migliori tese tra la tentazione
dell’oscurità e l’obbligo di eluderla, di emarginarla sul dorso insicuro d’una
vitalità disperata, diretta, notturna. Dell’essenziale disagio dell’esistere
protetto e isolato dal bla-bla delle schiere di professionisti marcianti in
attesa di marcire, Koltes è un cantore sublime. Ne scruta la ripida e fatale
illegalità s’accorge di come, in fondo, in quel crudo ed elementare atto di
universale compravendita cui si riducono i contatti tra gli esseri umani, c'è
solo minaccia e fuga, “l'affare per se stesso, senza un oggetto da vendere e un
oggetto da comprare, senza moneta valida e neppure un listino dei prezzi,
soltanto tenebre di uomini che s'afferrano, s’annusano, s’intuiscono nella
notte”. S’invaghisce di questa ibrida purezza, peculiarità e sorte di quanti
riescono a vivere sottratti alla legge e all'elettricità, di quanti si cercano
senza pagare il fio della propria ricerca con una stabilità forzata e con una “temperatura
d’aria filtrata” o con accomodanti e mesti tributi all'orgoglio. Lo scrittore
alsaziano, ricorderà in seguito, in una fase più matura della sua produzione
letteraria, che la vera crudeltà, “nell’ora autentica del crepuscolo” consiste
nel non riuscire più a perdersi, raggomitolandosi nel comodo labirinto delle
convenzioni, loculi costosi dove parcheggiare la propria indifferenza. Infatti:
“Non è grave che un uomo ferisca l’altro o lo torturi o anche lo faccia solo
piangere, il tormento vero e terribile è quello dell’uomo o dell’animale che
rende l'uomo o l’animale incompiuto, che l’interrompe come i puntini di
sospensione in mezzo a una frase, che gli volta le spalle dopo averlo guardato
e lo riduce a un errore dello sguardo, un errore del giudizio, un errore, come
una lettera appena iniziata e brutalmente stracciata...”. Nel monologo La notte poco prima della foresta il
vagabondaggio dignitoso e supplice, affamato di sguardi e complicità diviene
invocazione profana, incisa nelle viscere, diario intimo di un abbordatore di
sbandati, manifesto che promulga, in consonanza autentica con la schiuma della
terra, un Sindacato Internazionale per la difesa dei Ragazzi Non Troppo Forti (“figli
diretti delle loro madri, con la camminata dondolante da maschi tutti un fascio
di nervi”). Una prosa da poema contemporaneo raccoglie in un visionario
affresco la babele dei linguaggi, il crogiuolo delle speranze disattese, le
appartenenze etniche calpestate nel feroce e sregolato agòne delle identità. Vi
si cantano “le vecchie, gli arabi, i mendicanti, i controllori, i teppistelli
tirati a lucido, lo schifo di odori, lo schifo di rumori, litri di birra, la
voglia di una stanza”. S’inveisce contro la ghettizzante geografia delle città,
accuratamente scisse in zone di lavoro settimanale, zone per le moto o per
rimorchiare, per avvilirsi nei pressi della tristezza o lasciarsi adescare
dagli occhi vivi d’una puttana. Questo delirio teatrale intenso e acre, dal
fraseggio lungo, pieno di battute controtempo, è un fluire di pioggia e di
vento, di camminate sui marciapiedi, di rifiuto d'ogni specchio o simulacro
incapace di riflettere vertigini. Un inno all’eros, al viaggio, alla latitanza.
Uno stillicidio d’invocazioni non abbracciabili dai pietismi messi in posa o
dall’esibizione di misericordie spettacolari e avente il suono impercettibile
di un precipitare piovano schiodato da nubi di promiscuità e solitudine.
Nessun commento:
Posta un commento