articolo apparso sul quotidiano "Cronache del Garantista" martedì 26 agosto
Luciano Lanna
Non molti lo sanno ma uno dei film più
incisivi nella battaglia contro la pena di morte è stato firmato e interpretato da Clint
Eastwood, lo stesso attore e regista che negli anni ’70 veniva considerato
“fascista” per aver interpretato i film polizieschi di Don Siegel con
l’ispettore Callagan come anche i primi western “violenti” di Sergio Leone. Si
tratta di Fino a prova contraria (titolo originale: True
Crime), una pellicola del 1999 diretta appunto dal nostro Eastwood e tratta dal romanzo Prima di mezzanotte di Andrew Klavan. In Italia il film è uscito il 30 aprile 1999 ma non è stato molto
pubblicizzato o commentato, al punto di trasformarlo in un cult movie e vederlo
citato nella cinematografia anti pena di morte. Eppure, a ben vederlo, per
alcuni tratti potrebbe risultare anche più efficace di pellicole stracitate come
Dead Man Walking o Il miglio verde…
Veniamo alla trama,
comunque. Steve Everett, un giornalista di lungo corso appena uscito dal buco
nero dell'alcolismo,
ha il compito di scrivere un pezzo sull’esecuzione alla sedia elettrica di Frank
Beechum, un nero di trent’anni che è stato condannato per l’assassinio di una
giovane donna bianca. E il film sembrerebbe dipanarsi inizialmente solo intorno
alla storia personale di Everett, il quale è costretto improvvisamente a
sostituire una sua collega di lavoro, morta in un incidente d’auto la sera
prima, nel compito di scrivere un articolo umano sulla condanna a morte e prossima
esecuzione, allo scadere della mezzanotte, di Frank Beechum.
Il personaggio con il
volto di Clint trova però tutta una serie di circostanze e dettagli importanti
che non erano stati considerati né approfonditi dalla polizia come dal pubblico
ministero. E così Everett diventa consapevole che Frank Beechum non è affatto
il vero colpevole. In particolare, il giornalista viene colpito dal fatto che
sulla scena sia presente un altro giovane, e che questo non sia stato minimamente
preso in considerazione nella lista dei sospetti.Dopo tutta una serie di colpi
di scena, cinematograficamente molto efficaci,
compreso il licenziamento dello stesso Everett e la decisione di divorziare
presa dalla moglie, il nostro giornalista riesce a risalire all’identità dell’altro
giovane e infine a provare l’innocenza di Beechum. È un particolare pendente
appeso al collo della nonna del giovane, che nel frattempo è stato ucciso, e
che apparteneva precedentemente proprio alla vittima. A questa rivelazione
segue una lunga scena divisa tra il tentativo di Everett di raggiungere il governatore,
per poter fermare l’esecuzione, e quindi l’esecuzione alla sedia elettrica stessa.
La scena finale vede
un Everett licenziato, “senza casa”, ma candidato al Premio Pulitzer, comprare
un regalo di Natale per la figlia e incontrare appena uscito dal negozio lo
stesso Frank Beechum, salvato proprio all’ultimo secondo, anche lui con i
familiari pronto alla festività. La scena chiave del film, la corsa contro il
tempo mentre l’esecuzione sta per iniziare, è un vero e proprio remake filologico di una scena classica
della storia del cinema, il salvataggio all’ultimo minuto di Intolerance di Griffith. Oltretutto Eastwood
non è certo un seguace della strizzatina d’occhio citazionista tipica di un
certo cinema d’autore. “Ma perché – si è chiesto il critico Christian Viviani –
ottant’anni dopo Intolerance Eastwood
crea un remake virtuale di quella
scena nel finale palpitante di True Crime?
Si tratta di un gesto passatista che,
tutto sommato, non si è inventato niente? O di una nostalgia regressiva verso
una forma superata di cinema? Niente affatto. Lo spettatore sarà in realtà
emotivamente coinvolto a fondo nella scena, indipendentemente da una scena
referenziale del montaggio alternato che probabilmente ignora. Quello che
s’impone è semmai l’aplomb stilistico di Eastwood, che ragiona con una logica
sconvolgente allo scopo di provocare una reazione viscerale: l’indignazione nei
confronti della pena di morte…”.
Anche questo film,
purtroppo come abbiamo detto poco conosciuto in Italia, rivela comunque la
vocazione libertaria di Clint Eastwood, la stessa che sta all’origine di suoi
film come Million Dollar Baby, Lettera da Iwo Jima, Gran Torino, Invictus o J.Edgar… “Sono
– ha ammesso lo stesso Clint – un libertario, amo l’indipendenza, venero lo
stato mentale di chi rimane indipendente, in politica e nella vita”. Tutto
questo Eastwood lo sostiene senza rinnegare nulla della sua stessa biografia politica,
le stroncature degli anni ’70 – quando la critica liberal Pauline Kael lo bollò
addirittura come “fascista” per via della particolare connotazione
antropologica di tanti suoi personaggi – e anche la sua esperienza diretta, nel
1986, come sindaco repubblicano della cittadina californiana di Carmel. Tanto è
vero che lui – e non tanti presunti progressisti – ha affrontato nei film che
ha diretto temi spinosi come la pena di morte, nel caso di Fino a prova contraria, oppure il “fine vita” in Million Dollar Baby, i diritti degli
immigrati e il rifiuto della xenofobia in Gran
Torino, la lotta al razzismo in Invictus.
E intervistato Eastwood ha spiegato e declinato fino in fondo la sua visione
libertaria delle cose: “Sono cresciuto a Oakland, in California, con una vasta
popolazione di neri. Amavo la musica jazz, ma non capivo perché i musicisti
neri non potessero suonare nelle band dei bianchi. Mia moglie, poi, è in parte
di colore, anche lei cresciuta in California e da piccola sentiva la gente che
le diceva: ‘Ehi tu, non bere da quella fontana’. Certo, abbiamo fatto passi
avanti da allora, ma c’è ancora del pregiudizio nella nostra società…”. E oggi,
sostiene il libertario Eastwood, la frontiera della libertà passa attraverso la
capacità di “scavalcare le linee di partito”. Tanto che sul piano politico lui prende
ormai le distanze dal vecchio bipolarismo a stelle e strisce: “Non credo più
nel partito repubblicano ma nemmeno in quello democratico”. Più libertario di
così…
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