articolo pubblicato sul quotidiano "Cronache del Garantista" giovedì 11 settembre
Luciano Lanna
“Pochissimi hanno traversato le
rivoluzioni, in mezzo alle quali siamo nati, senza che qualche macchia di fango
o di sangue abbia lordato loro l’uniforme da soldato o la toga da giudice…”. È
una citazione che proviene non da un testo di diritto o di filosofia politica
ma che sta al centro di un testo narrativo nato come feuilleton a puntate sui giornale e diventato col tempo il romanzo
popolare per eccellenza: Il Conte di
Montecristo di Alexandre Dumas. Fin dal suo primo apparire, in quella
Francia degli anni Quaranta dell’800 che era il più effervescente laboratorio
delle rivoluzioni europee e dei diritti emergenti, la storia di Edmond Dantès,
eponimo dell’ingiustizia e dell’errore giudiziario che si trasforma in titolare
di fortuna e di giustizia, fu accolta dalle migliaia e migliaia di avidi
lettori di feuilleton come la più coinvolgente e appassionante incarnazione
dello spirito dell’epoca. Un successo fulmineo, per il romanzo, che fu subito
sancito dall’immediato passaggio all’edizione in volume e da un vorticoso
numero di ristampe e traduzioni.
Diciamo subito che, in Italia e nel ’900,
Benedetto Croce confessava, dopo averlo letto, di non provare “il rossore di
cui altri sentirebbero inondato il volto nel dire che mi piace” e che Antonio
Gramsci nei suoi Quaderni del carcere
ne faceva il prototipo di una “letteratura nazional-popolare” di cui la cultura
italiana sarebbe stata priva. E che, infine, Bettino Craxi, costretto
all’esilio per la furia giustizialista che colpì il nostro paese nei primi anni
’90, sceglierà proprio il nome di Edmond Dantès come pseudonimo col quale
vergare i suoi scritti dall’esilio tunisino di Hammamet, e questo dal 1993 sino al
giorno della sua morte, il 19 gennaio 2000. Scelta non certo casuale e
oggettivamente connessa alla carica garantista e antigiustizialista del romanzo
di Dumas.
Pubblicata a puntate per ben due anni, dal
1844 al 1846, come romanzo d’appendice, trama del romanzo, vuoi per sentito
dire o per i molti adattamenti cinematografici e tv, è nota, patrimonio
dell’immaginario occidentale. La vicenda si snoda durante gli anni tra
il 1815 e il 1838, dalla fine del regno di Napoleone Bonaparte al regno di Luigi Filippo. Edmond Dantès è un
giovane che sta per vedere i suoi sogni realizzati: a breve diventerà capitano
sul bastimento Pharaon a soli 19 anni ed è destinato a sposare
la bellissima Mercedes della quale è innamorato da sempre. Ma questa fortuna fa
invidia a molti: Danglars, scrivano del Pharaon si vede soffiare la
possibilità di una promozione e Fernand Mondego – più avanti conosciuto come conte de Morcerf – che è il suo rivale in amore, non sa rassegnarsi alla
perdita di Mercedes. I due ordiscono così un complotto contro Dantès: con una
lettera anonima accusano il giovane di essere una spia bonapartista che trama
per il ritorno di Napoleone dall’Elba. Edmond viene così ingiustamente imprigionato
il giorno stesso del suo matrimonio e lasciato in una segreta per 14 lunghi
anni nel Castello d’If, terribile carcere su una roccia in mezzo al mare.
Gli effetti politici del complotto? Danglars, lo scrivano di bordo della nave dove lavorava Edmond, verrà
invece promosso capitano della nave Pharaon.
Dopo poco tempo abbandona l’incarico e si trasferisce in Spagna dove lavora
presso un banchiere. E in seguito a una
serie di speculazioni e investimenti diventa milionario e sarà, oltreché
barone, il più ricco banchiere di Parigi. Poi c’è Villefort: il suo nome
originario è Noirtier, sostituto Procuratore del re e, in seguito, procuratore
del re, figlio di un bonapartista, arriva a rinnegare il padre (e a cambiare
cognome in Villefort) per garantire la sua fedeltà alla monarchia ed entrare
così nelle grazie del re e di tutto l’entourage monarchico, compresa la
famiglia Saint-Méran sarà lui il responsabile materiale dell’incarcerazione di
Edmond.
Nella vicenda c’è però una variabile
impazzita. In carcere Edmond incontra però il sapiente abate Faria che gli
regala tre cose: l’idea e la possibilità di una evasione, un tesoro nascosto
all’isola di Montecristo col quale ricrearsi un’identità, e l’ispirazione e
farsi giustizia. Quel compagno di cella, avanti con l’età e malato
terminale, gli rivela infatti l’esistenza di un tesoro nascosto sull’isola italiana. Dopo aver recuperato il tesoro Edmond,
assumendo le finte spoglie del Conte di Montecristo, ma anche di altri
personaggi, come l’abate Busoni e Lord Wilmore, con intelligenza e sempre
all’insegna del motto “aspettare e sperare” riesce a vendicarsi di coloro che
un tempo, amici suoi, lo avevano tradito e fatto condannare ingiustamente.
Dantès agisce al di sopra e oltre il sistema giudiziario ordinario, convinto
come è del sistema ufficiale di giustizia criminale.
I
complici del complotto contro di lui sono infatti tutti arrivati ai vertici del
potere: Morcerf rappresenta il potere militare, Danglars il potere finanziario.
Villefort il potere giudiziario. Non c’è idolatria dei “tre poteri”
montesquiani che regga nella visione “politica” del garibaldino Dumas (che come
sappiamo seguì e raccontò l’avventura dei Mille non solo per giornalismo). All’origine
di ciascun potere, secondo l’autore del Conte
di Montecristo, sia questo potere di spada, di denaro o di toga sta un atto
di forza illegittimo, un crimine o un’ingiustizia. Il credo o il colore
politico contano poco nella società borghese post-rivoluzionaria: legittimisti
reazionari o liberali orleanisti i personaggi della storia appaiono tutti
colpevoli. Morcerf è legittimista, Danglars, barone per grazia di Carlo X,
milita nell’opposizione dinastica. E Villefort, ex Bruto realista e antibonapartista,
è un arrivista pronto a tutto che, aristocratico d’origine e di sentimento, ha
ormai un solo desiderio, conservare la sua posizione di potere, e un solo
modello: l’ordine.
Come ha annotato Enzo Siciliano il
quadro socio-storico è la chiave intima del successo del Conte di Montecristo: qui più che la Storia lo scrittore ha
descritto la sua contemporaneità e la sua tendenza all’ingiustizia e agli
errori giudiziari: “La facilità del guadagno, dello sperpero di denaro, delle
corse irrefrenabili su per la scala sociale di affaristi spregiudicati e
funzionari di mezza tacca che sanno sfruttare la politica, le amicizie di
qualità a unico profitto personale; quindi il precipizio in cui tante
improvvise fortune finanziarie piombavano a terra con la velocità del suoni, e
travestimenti conseguenti, lacrime per alcuni e per altri gioie: questa la
sostanza del romanzo”.
La vicenda, comunque, è ambientata non
solo in Francia ma anche nelle isole del Mar Mediterraneo e in Italia. E qui ci sono le pagine indimenticabile
sul Carnevale di Roma ma, soprattutto, sui briganti italiani amici del Conte.
In particolare emerge la figura di Luigi Vampa, un bandito laziale
che aiuterà Dantès nei suoi piani di giustizia. Si parla, nel romanzo, dei
briganti laziali di Palestrina e di Valmontone – nella storia furono quelli di
Montefortino, centro lepino che poi cambierà il nome in Artena, “paese di
delinquenti nati” secondo un’opera del sociologo Scipio Sighele.
Ecco, da questo punto di vista il romanzo di Dumas
contribuirà più di altri a definire quella del brigante come icona libertaria.
Lo scrittore Raffaele Nigro, che alla figura e alla metafora del bandito ha
dedicato uno studio comparato – Giustiziateli
sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri
(Rizzoli, 2006) – individua proprio in libri come Il Conte di Montecristo la matrice di questa connessione: “Un vento
pericoloso invase nell’800 le città d’Europa. I giovani credono in Schiller,
nella forza contestatrice assegnata ai banditi e ai briganti, molti si sono
votati alla macchia e a un rischioso sovvertimento di valori. La filosofia del
masnadiero impregna di ideali libertari della nuova società, è importante
uscire dal contesto borghese e intervenire all’esterno per mutarne le regole.
Quella del brigante è una figura di contestatore ante litteram contro la quale si scatenano la società civile e la
Chiesa…”.
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