Marina Maugeri
(liberamente ispirato agli scritti di René Girard e Michel
Serres)
Strano a dirsi, benché come
scrive Tito Livio non vi sia “altro fatto antico che sia più famoso” di questo,
non è affatto certo a quale delle due città, Roma e Alba Longa, appartenessero
i tre gemelli Orazi e i tre gemelli Curiazi, campioni di un duello a sei teste
che decide delle sorti di uno degli scontri più fatali della storia, simbolo
nefasto di guerra civile. Essere gemelli nel mito vuol dire avere a che fare
con un conflitto che non decide, essere portatori di una reciprocità
simmetrica, dunque identica, che getta fatalmente nella crisi e nella
risoluzione sacrificale, il campo che miete Marte, nel quale si scontrano
coppie di doppi rivali in un conflitto da cui solo i poeti, scrittori di storia
mitica, sanno trarre fuori la genesi di una nuova fondazione. La violenza
trasforma gli “eserciti” dei fratelli-nemici in due insiemi indifferenziati,
pari “d’età e forze”, coppie gemellari senza identità, dietro le quali premono
comunità che sono dilaniate da una peste contagiosa, un tipo di turbolenza che
è la lotta per il possesso della terra, una cosa che emana una luce effimera ed
è la cosa mia, la cosa tua, la cosa nostra. Allo schieramento di campo delle
due triadi penseranno perciò solo gli storici, collocando i campioni degli
Orazi dalla parte di Roma, quella dei Curiazi nel fronte di Alba Longa. Lo
scontro che divide le due città è il simbolo di un conflitto empio e
fratricida.
Alba è la città madre di
Roma, annovera nel suo ceppo mitico capi selvaggi e re che oppongono la loro
destrezza alla turbolenza della molteplicità e sono plasmati al comando dalla
lotta impari che ingaggiano con la forza trascinante degli elementi. La Città
dei pater ha perciò questo ramo femminile, nel quale risiede integra la potenza
generativa di una regina, su cui la storia scrive come molle cera, ma solo a
colpi di profanazioni, empietà e stupri. La matrice del conflitto risiede
perciò in questo nodo oscuro e celato, latente come vuole il Lazio, la terra
del nascosto. Albalonga e Roma sono in
guerra permanente, si scelgono perciò dei campioni fra due famiglie che sono
unite per matrimoni, il cui scontro deciderà le sorti delle città. Tuttavia
nello scontro-ordalia le forze si equiparano al tal punto che il destino delle
due città rimane a lungo sospeso in un duello che non decide. La battaglia è in
corso, due degli Orazi sono già colpiti a morte mentre il terzo si è dato
indecorosamente alla fuga, perciò anche il pater degli Orazi si prepara ad
uccidere quel figlio che indietreggia, gettando i Romani nel disonore. Presto
però ci si accorge che la fuga del giovane romano era solo uno stratagemma, che
Orazio ha fatto scattare l’arma dell’astuzia e si è trasformato da prode in un
vile fuggiasco ma solo per costringere i Curiazi a rincorrerlo e al momento
opportuno, quando la triade albana ha disperso la coesione e la potenza del
numero, egli ha invertito di nuovo il movimento della corsa e con uno scarto
decisivo della schiena ha mutato il corso della storia. Le sorti delle due
Città si decidono in questo attimo, perché se Orazio soccombesse ora farebbe
sorgere un mito diverso e sarebbe il fondatore di Alba e non di Roma. Ma il
furore procura ad Orazio le armi per seminare il panico, mentre il sangue
avvampa i cuori degli astanti. Lo spettacolo dell’imminente uccisione concentra
gli sguardi sul campione dei Romani ed è la somma di tutti i genitori e degli
dèi patrii, una pressione che si fa testuggine e solleva il fragore del tuono,
il frastuono della molteplicità. La turba si compatta unanime e forma il corpo
di una belva, propriamente un draco, termine che deriva dal greco drákōn, ma curiosamente non indica
ferocia, quanto piuttosto l’azione del guardare, il fissare lo sguardo. Tre
contro uno. Orazio è solo, ma il suo isolamento riunifica e compatta. Tutti gli
sguardi convergono a raggiera su di lui, insigne perché isolato, distinguibile
dal resto, peculiare in quanto capace di riassumere la molteplicità, capacità
che è potenzialità, potenzialità che è potere . Tutti i segmenti degli sguardi
confluiscono sull’eroe isolato e si fanno pressione. Pressione che è forza,
potenza che scaturisce dalla totale simbiosi dell’eroe con la belva che fissa
lo sguardo su di lui. Orazio la trasforma nella distruzione che si abbatte su
un’altra fiera . I suoi occhi lampeggiano come dardi di fuoco. La lama colpisce
i campioni albani uno dopo l’altro. I Curiazi cadono sul campo e trascinano
Alba nella sciagura. Non è il circo, non ancora, ma è l’origine della tragedia
e del diritto. Roma uccide Alba Longa. Roma è un tratto di penna nero che
scrive un nuovo inizio nella sua storia. La fondazione necessita della
ripetizione. L’impresa di Orazio si direbbe perciò compiuta, ma il furore è una
potenza di cui non ci si sbarazza tanto facilmente e Orazio è questa forza
distruttrice. Dal campo insanguinato
sull’Appia, il campione romano si prepara a rientrare in Città per la Porta
Capena trascinato da una folla in preda a un’ebbrezza esaltante. Il passaggio
nel pomerio è l’attraversamento di un campo consacrato dagli auguri che vi
hanno fissato dei cippi affinché gli edifici non siano mai troppo contigui alla
cinta. Il corteo si accinge perciò a varcare una terra di nessuno, dove l’uomo
non è più padrone. Ma all’improvviso la turba è scossa da un sussulto.
Nell’aria s’agita un suono diverso, una musica che è amore e dolore. Il
singhiozzo di una fanciulla sovrasta ogni clamore, il suo dolore scioglie
chiome e lacrime sul corpo esanime dell’albano suo sposo. Un solo occhio sporco. Il campo è seminato,
attende solo la scintilla. Qualcuno lancia un’invettiva e il lampo si accende.
Il fulmine è un bagliore improvviso, la saetta di Febo Apollo appartiene a un dio
che è tutt’altro che benevolo e languido, come vorrebbe la sua luminosa
immagine, ma propriamente saettante, in grado dunque di debellare la “peste”,
ma solo nella stessa misura in cui si ritiene che sia stato il dio stesso a
scatenarla e lo si consideri perciò altrettanto capace di risanare la quiete.
Lesta, improvvisa, micidiale un’arma si abbatte sulla fanciulla come una
mannaia, scatenando un grido di orrore: “Il fratello trafigge la sorella!”
Così, la pietà di Venere si trasforma nella triste mattanza di Marte. Orazia,
colpevole di piangere il suo sposo, uno degli albani il cui cadavere giace
insanguinato sul campo di Marte, si accascia al suolo, sposa nella sciagura
dell’amato “nemico”. Il fratello è accusato di avere ucciso la sorella.
Nell’apparente conflitto si riverbera il nocciolo simbolico della fondazione di
Roma. Tutti i Romani come Orazio discendono da Marte, padre di Romolo, tutte le
Romane come Orazia provengono da Venere, madre del troiano Enea, dal cui figlio
Julo trae nome e origine la gens di Alba, il ceppo dei “fondatori”che da Romolo
giunge fino a Cesare. Marte e Venere, lo strano binomio della forza- violenza e
della pietas-perdono che esprimono però una realtà duale, un doppio che si
rovescia l’uno nell’altra. Tutte le Romane come Orazia sono mute al pari di
Lavinia, fanciulla esclusa dal circuito della parola, ma che reagisce con il
rossore e il pianto di fronte all’intenzione di Turno di battersi con Enea e
alla disperazione della madre Amata che piange il tramonto del suo popolo
selvaggio. La morte della madre è il passato di Lavinia, l’uccisione del
promesso sposo Turno è già il suo futuro. Ma ciò che rende eroica l’opzione
taciturna di questa regia filia di Alba è la sua scelta per la vita, ciò che
rende possibile la storia e la grandezza futura dell’Urbe. Orazia irrompe con il
suo disperato cordoglio, sconvolge l’unanimità appena ritrovata del molteplice.
Il suo lutto è deplorevole, è una contraddizione di cui occorre cancellare le
tracce, le calde lacrime la calano nella gelida fossa della fondazione, quel
mundus infestato da divinità telluriche che salva all’occorrenza la comunità
dalla rappresaglia divina, acquietando il tumultus , mettendo al riparo dalla
crisi. Orazia è un pharmakos , la medicina che banalmente serve a quietare gli
animi, il prezzo del riscatto accordato agli dei affinché il sangue dei Curiazi
non ricada come una maledizione perpetua sull’intera comunità. La Terra è una
curiosa sfera che oscilla come una foglia instabile e il cosmo è propriamente
l’equilibrio che l’uomo attua nello scambio con il divino, ciò che assicura
temporanea stabilità e fornisce un punto d’appoggio che rinsalda, in accordo
con l’illusione di dèi, la cui invidia e violenza giustifica la frenesia del
contagio violento contro qualcuno, la cui espulsione o messa a morte consente
di ristabilire l’ordine, riscattando al prezzo della vita di uno solo la
momentanea stabilità dei molti , degli insiemi. Solo ora Orazio comprende che
non esiste alcun compromesso possibile fra uccidere ed essere ucciso, ora sa
che tutti possono ucciderlo. Egli è un semi-dio perché ha salvato la comunità
dal predominio albano, ma come Remo é un capro-lupo, empio e fratricida e deve
perciò essere sottoposto al giudizio a causa della trasgressione che l’ha
portato oltre il limite. Il podio sul
quale Orazio si erge é quello dal quale svettano solo coloro che sono odiati e
al tempo stesso venerati. Venerati, non amati. La venerazione nel cosmo
panteista rende omaggio ad un oggetto sacro, ad una persona che diviene oggetto
d’idolatria e venerazione. L’oggetto su cui il desiderio fissa lo sguardo é
qualcosa con cui non si entra mai in relazione. Venerare ha perciò la stessa
radice del nome Venus , dea dell'amore, ma la forza generativa che suscita ha
ben altro significato, perché si rovescia nel suo opposto mostruoso e quando è
rovesciata esprime odio. Nel mito perciò i mostri hanno tutti un difetto alla
vista, vedono male e vedono doppio. Quando nel circo si aprono i giochi, lo
spettacolo degli sguardi converge sulla terribile danza che è l’agonia di uno
schiavo che porta la colpa e mette in scena la pantomina reale della
maledizione dell’essere uomo davanti a Iuppiter. La folla assiepata sulla
scalea non si sforza di capirlo, si trasforma in una belva feroce che
scaglia“pietre”, ma come tutti i mostri vede male e ciò che perde di vista è
quello che non vede di sé, perché è lei stessa una pietra che costruisce questa
cosa ottusa, grezza, terribile. Il furore di cui Orazio deve farsi carico per
portare a termine le imprese collettive della sua Città comporta perciò una
pericolosità per sé e per gli altri, una hybris
di cui non è poi tanto facile disfarsi. Accade anche a Ercole di ritorno dalle
sue fatiche di essere preda di un attacco di follia che causa lo sterminio
dell’intera famiglia, moglie e figlioletti e solo quando torna padrone di sé
sprofonda nella più totale disperazione, decidendo di ritirarsi a vivere in
solitudine in un territorio desolato. Essere toccati dalla violenza e provare a
dominarla significa entrare nel suo circuito perpetuo ed esserne assoggettati,
consacrarsi a Marte, nutrirsi delle messi del suo farro, quel raccolto letale
che cresce nel Campo Marzio e che i Romani colgono ma solo per gettarlo nel
fiume con un rituale, perché nutrirsi di quelle messi vorrebbe dire collocarsi
già sul fondo di quel fiume. In questo lontano arcaico, grezzo ed essenziale,
non c’è traccia mistica della brutalità. Ciò che spinge le comunità verso la
violenza, quale ente generatore di distruzione trascendente, non è la volontà
di unirsi ad una divinità distruttrice. Diversamente da ogni mistica moderna
ispirata deliberatamente all’abisso sacrificale dionisiaco in chiave
anticristiana, la religione arcaica e la trasformazione di tale trascendenza
violenta in un sistema culturale e “politico” rifondato, non puntano a creare
unione con la divinità dissolutrice, come avviene in epoca nichilista fuori
dalle categorie del sacro, bensì a tenerla a debita distanza, utilizzando la
violenza per preservare la comunità dalla distruzione. La violenza è interna alla comunità ma si
esprime come illusione di una polarizzazione che si colloca fuori e assume il
volto di una divinità che reclama il sangue dell’uomo. Non può essere ammessa
nello spazio dell' Urbe che il nomos
ha originato e ancora non si proietta oltre il suo confine con la Civitas. L’instabilità violenta origina
nuovi equilibri della storia, ma non può che essere bandita dall'ordine
costituito, anche se appartiene alla dimensione del sacro e il sacro con la sua
ambigua indifferenziazione è un’unica e medesima cosa con la violenza che
impone rapporti doppi e simmetrici, mostri a tre teste che si fronteggiano come
belve disumane. L’eroe si lascia invadere da questa forza , ma non partecipa
già più del nuovo ordine, è fuori della comunità, appartiene alla divinità
oltraggiata, anche se al tempo stesso è depositario del destino della comunità
che da lui fa dipendere la stabilità interna, la sua stessa sopravvivenza.
Orazio è un meraviglioso eroe, ma al tempo stesso non può che essere un
orribile assassino, un mostro senza pietà che distrugge nella sorella, nel suo
stesso sangue, la personificazione della pietas , la sua stessa umanità. Egli
riassume fatalmente su di sé l’illusoria ambivalenza del sacro arcaico. È la
belva feroce cui la comunità affida il proprio destino, dotandolo di prerogative
divine, è perciò come Remo un lupo empio e selvaggio, come Marte é uno
“sterminatore di eroi”. Orazio è quel tipo di eroe dotato di prerogative
straordinarie, un dio e un lupo insieme. Ma in realtà l’opposto del lupo non è
affatto un dio, bensì un altro lupo, un gemello contro l’altro, perché
l’opposizione nel campo di Marte è solo l’indifferenziazione della violenza,
una zona grigia dove vige la cattiva reciprocità simmetrica che si esprime
colpo su colpo. Il pelo rovesciato del lupo, che dentro rimane pelo e lupo,
anche se nascosto dal rovesciamento. Accusato di perduellionis – lesa maestà, sovversione dell'Ordine costituito – Orazio
deve subire la pena dell’arbor infelix ed
essere suspensus al ramo rinsecchito
e malaugurato per essere fustigato, fino alla morte. L’albero infelice,
antesignano della croce, è in analogia con il limes, una sorte di confine reale
e simbolico fra il villaggio urbano e la selva, come il muro del pomerium che é
sotto la potestà degli dei degli inferi e di Fauno. E’ un arbusto maledetto
come il colpevole al quale s’infligge la pena con il capo velato. Solo a questo
punto interviene il re Tullo Ostilio, il quale concede alla gens agli Orazi di
ricorrere alla provocatio ad populo.
I rituali di consacratio ed
espiazione prevedono una partecipazione popolare al giudizio. Si torna alla
scena ed è ancora la turba la protagonista reale della vicenda. Il popolo al
tumulto si pressa intorno all’eroe-malfattore, si dispone in cerchio,
l’assembramento ricorda il linciaggio che la folla si appresta a compiere. Solo
l’arringa del pater familias consente
a Orazio di riprendere la via dell’Urbe, sebbene come uomo diminuito che dovrà
sottostare al giogo di un travicello messo di traverso sulla sua strada per
mantenere il ricordo della sua colpa. Orazio si salva, non muore. Il pater che rappresenta la comunità
riunita, il popolo delle Trenta curie romulee, decreta che Orazia è stata
legittimamente uccisa e deplora pubblicamente il comportamento della figlia che
ha infranto una regola comunitaria. Il potere di morte dei padri sulle figlie
femmine è una consuetudine confermata dalla realtà storica più arcaica (Regine
Pernoud). Ma l’accaduto é deplorevole, perciò si dispongono atti espiatori
riparatori, cui la famiglia degli Orazi dovrà provvedere. La storia è una
rappresentazione che mostra i protagonisti in azione, il coraggio dei giovani
campioni del duello, lo strazio della sorella, l’arringa patetica del pater. Il molteplice rimane invece
impercettibile, opaco e dissimulato, non compie un vero moto, non ha un’azione
propria. Esiste solo come sguardo che converge sulla rappresentazione e getta
un occhio sporco nel punto focale dove il “fratello” assume su di sé ora la
parte leggendaria, ora quella della canaglia e la “sorella” che esplode nel
pianto è la vittima sostitutiva. Orazio salva la collettività, ma è anche
l’omicida che agisce in nome e per conto della comunità. Mentre nel Vangelo la
folla al cospetto di Pilato che reclama la morte di Gesù si mostra per quello
che è veramente, una molteplicità ondivaga, contagiata da meccanismi mimetici,
la prospettiva mitica misconosce al molteplice questa funzione, rende esplicito
solo l’effetto delle sue azioni, il contagio dell’eroe, la sua hybris, in definitiva l’ accusa della
sua colpevolezza che giustifica la risoluzione sacrificale. In cosa consiste la differenza fra le due
prospettive? Il mito elabora degli avvenimenti reali, ma li reinterpreta,
scagionando da ogni responsabilità il collettivo. L’eroe-vittima contaminato
dalla violenza è accusato dalla comunità per la sua dismisura e scampa al suo
stesso sacrificio, macchiandosi di una vittima palesemente innocente, sua
sorella Orazia. Il meccanismo del capro espiatorio, tanto esplicito nelle
letture testamentarie (*) è sistematicamente dissimulato nel mito e con esso il
comportamento realmente criminale della folla che si agita in preda ai
molteplici desideri che costituiscono una forza unanime e terribile. L’eroe in
definitiva è il depositario di questa forza collettiva dalla quale è posseduto
ma da cui può essere distrutto. Orazio non detiene perciò una forza sua, né la
detiene in senso astratto. Il suo potere non si basa su un teorico contratto
sociale. Esercita la forza nel campo del reale, polarizza l’energia di tutti,
attrae su di sé i desideri e le trasgressioni di tutti, possiede nella mano
questo nodo, il potere e la forza , ma al tempo stesso il nodo è posseduto dai
suoi linciatori, coloro che lo consacrano nella violenza al prezzo della sua
stessa vita. L’elevazione di Orazio a eroe mitico più che un mito è un rito, i
cui effetti sono solo attenuati dal Diritto. Roma è del rito, Alba è del mito.
Roma demitizza il suo Pantheon ed è la terra della fondazione che si oppone
alla riva del fiume e bagnandosi si rende fertile. Alba, la bianca, è l’essenza
della natura che produce capi selvaggi che fatalmente scompaiono nei flutti del
fiume, principesse violate che svaniscono nelle acque tremule dei suoi laghi
circolari sul cui fondo giacciono verità nascoste. Roma cerca le sue origini
perdute e le intreccia con la realtà storica, è per questa via che l’Urbe
genera saghe e leggende, ma non miti. Orazio é un eroe-vittima, un essere glorioso
ma anche una vile canaglia. Come Romolo è un fratricida, come Remo è un empio.
E’ l’assassino di sua sorella, una fanciulla colpevole di amoreggiare con il
suo sposo albano. Il diritto infine acconsente al passaggio che immette nella
città mediante la porta schiusa di Giano Quirino e da quella porta il tragico
corteo mestamente rientra in città. Tutti tornano a casa, tutti ad eccezione di
Orazia che giace nella gelida fossa espropriata alla terra che accorda così la
nuova fondazione. La fondazione si ripete con una nuova fondazione, al costo
della vita di Orazia che si spegne nei pressi della Porta Capena. Alba, mater
urbis, non conosce più il tempo, è lo spazio indeterminato dell’origine, il
luogo ormai senza forma ed estraneo alla storia. Alba ha solo il mito, il tempo
che la separa dall’origine produce un’apparenza bugiarda, un’immagine
menzognera, un inganno omicida. Roma inventa il tempo storico. Due città, madre
e figlia, due ipotesi contrapposte, necessariamente complementari, perché
l’uomo non vive nella natura, vive nella storia. Sarà la Rivelazione cristiana
a dire che la storia che si afferma non è altro che il mito nascosto che l’uomo
vede sdoppiato. Ma il Dio cristiano non è un doppio, la natura umana e la
natura divina sono unite nella persona del Verbo senza confusione, né
separazione. La potenza divina si manifesta nella Misericordia, un tipo di
conoscenza che contiene anche l’odio e l’imperfezione, perché li ha assunti su
di Sé come rischio, il rischio della Croce.
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