Francesco Pullia
Da un lato un poeta
sfrenatamente amante di quanto d’inespresso e inusitato si celi nella parola,
gnostico, pessimista impenitente ma non per questo disperato, che all’orrore della
caduta nel mondo contrappone un ghigno beffardo e disincantato. Dall’altro, un cristiano
apocalittico che rivolta la fede come un calzino, fa dell’inconsolabile insoddisfazione
che lo anima il perno della propria ricerca, trova ovunque i segni della
debolezza di Dio dinanzi al devastante predominio del tragico, vive in attesa
di una catastrofe redentrice.
Dal dialogo serrato
tra queste due visioni, tanto contrapposte quanto speculari, è scaturito un
intensissimo epistolario protrattosi per quasi un trentennio. Si tratta del
carteggio (dal 1968 al 1996) tra Guido Ceronetti e Sergio Quinzio pubblicato in
questi giorni da Adelphi con il titolo, straordinariamente pertinente, Un
tentativo di colmare l’abisso.
Libro denso,
trasudante profezia e provocazione (da intendere quest’ultima come non
nascondimento e pervicace ribaltamento di angolazioni consuetudinarie),
minuziosamente curato da Giovanni Marinangeli, autore, tra l’altro, di un ricco
e ben documentato apparato di note in appendice.
All’ansia
monoteistica che spinge Quinzio (nella foto qui sotto) ad una rilettura biblica del tutto fuori
dall’ordinario, i cui esiti sono affidati a quattro commentari e a libri come La fede sepolta, Dalla gola del
leone, Silenzio di Dio, La croce e il nulla, fa da
contraltare lo scetticismo tagliente di Ceronetti (“il monoteismo assoluto”, afferma, “mi sembra la tomba del sacro (come il summum jus summa iniuria)
e la causa, il suo universalizzarsi, della fine della tensione religiosa nel
mondo civilizzato” e, più avanti, “il monoteista non è privilegiato neppure rispetto all’ateo, neppure nel
grado di felicità o d’infelicità. Siamo uguali tutti davanti all’arca chiusa”).
Due orizzonti che scorrono paralleli e, anche se talora sembrano intersecarsi,
non si sovrappongono mai. Entrambi gli autori, ognuno con un timbro peculiare,
danno voce ad una persistente lamentazione nei confronti dell’umano senza
scegliere vie di fuga o cedere a mediazioni o arrendevolezze.
Al centro c’è il
sacro, con la tensione che il suo richiamo e il suo occultamento comportano.
Quinzio lo radica in Dio (“sacro è
solo ciò che appartiene a Dio”) cogliendone la tragicità nella sua
destinazione storica (“la strada che
percorre il mondo”, scrive, “consistente
nel rinunciare alla verità, è una tiepida strada di morte” e, ancora, “è solo Dio che sacralizza, che compie questo
miracolo nella storia, che segna le cose col suo sigillo”). Ceronetti
sostiene, invece, di sentirsi “nel sacro
come un pipistrello nella sera”, avvinto da “un’attrazione inesplicabile, ma lucida e senza illusioni”: “il sacro come forza afferrante esiste, se mi
sento afferrare, ma la sua definizione, se non ne restringiamo il senso, si
perde”.
Al Quinzio per cui “bisogna credere disperatamente di poter
conoscere il segreto di Dio (diventare Dio, è biblico) o scegliere di voltargli
le spalle decisamente”, Ceronetti contrappone il suo “non cerco e non sento un Dio che può perdere
contro la sua creazione” aggiungendo subito dopo, in postilla, “se è veramente sua”.
Per Quinzio “chi non muove dall’interno della propria
tradizione è anti-tradizionale, cioè dissacrato e dissacrante” (“il nostro mondo, la nostra cultura, il
nostro significato”, preciserà più in là, “piaccia o no, è determinato dal cristianesimo. Al di fuori c’è
l’elusione, il pallido vino di rose di tutte le decadenze, nobile forse e
certamente triste”) e la stessa tragicità di Giobbe non può essere
compresa se non in una prospettiva cristiana. Ceronetti, al contrario, rifiuta
di considerare tutto sub specie
Christi. Per lui, è impossibile intendere Giobbe in chiave cristiana,
così come interpretare nella stessa ottica il dettato veterotestamentario. È
piuttosto interessato al Dio nascosto,
a quel Dio che può essere trovato solo da chi, come tiene a rimarcare, “ne proclama la nascostità”. A
Quinzio, provato dalla malattia della prima moglie, Stefania, e dalla sua
prematura scomparsa, sembra che su tutto incomba un’infelicità assoluta: “se Dio va in esilio con Israele (in Ezechiele), se è con il fedele nella tribolazione
(Salmo 91), se Dio muore sulla croce, si può dire che nell’autentica verità
ebraico-cristiana ci sia un provvidenzialismo benevolo che serenamente
“permette” il male? In realtà, invece, la “permissione” divina è la permissione della sua stessa morte. Non
dunque un “niente di troppo” fra bene e male, ma una lotta disperata fra troppo
di male e troppo di bene”. Ancora: “Quello che sperimento è questo: tutto sempre fallisce e muore, eppure
niente fallisce e muore mai del tutto”. E, di rimando all’amico che,
come abbiamo visto poc’anzi, accennava ad un Deus absconditus, afferma che “se non si prende sul serio la rivelazione di Dio, non si può prendere sul
serio il suo terribile nascondimento”. È chiaro che, stando così le
cose, l’abisso cui si accenna nel titolo del bell’epistolario non è colmato, né
può esserlo. “Per me”, confessa
Quinzio, “la croce insegna che anche
la salvezza è un abisso, non un trionfo, è un brandello d’orecchio strappato come
dice Amos dalla gola del leone. Ma io la voglio lo stesso a qualunque prezzo,
un minimo ma reale e visibile sottrarsi alla morte sia pure d’un soffio
(…) Meglio il dolore del nulla, questo
dice la fede, fede che qualcosa ha senso”. E subito dopo: “L’impotentia
Dei, la croce, è tema
veterotestamentario fin dalle prime pagine della Genesi, e lo è in tutta la
tradizione giudaica, fondata sulla consapevolezza dell’esilio di dio, nel suo
popolo, dalla sua shekhinà”.
La storia moderna gli appare come “un’attuazione
nell’orizzonte mondano delle grandi speranze cristiane fallite”. La
stessa salvezza cristiana si capovolge, per lui, in disperazione: “Disperazione di non riuscire a essere
“prossimi” a nessuno; di vedere che il perdono non impedisce il rinnovarsi della
colpa, e viene perciò deluso e vanificato; di essere condannati, venti secoli
dopo la venuta del Salvatore, a un’attesa della salvezza non più sostenibile”.
È la fede ad impedire “pazienza e
rassegnazione, perché mantiene un’assurda tensione nel confronto folle con una
possibilità diversa, una “salvezza” lontani da ogni pena”.
Con l’amico, cui
attribuisce “la stoffa violenta”
e “l’intolleranza” del “disputatore teologico”, Ceronetti (nella foto qui sopra) concorda nel rigettare la barbarie del
e nel mondo, una barbarie che,
com'egli annota, si riscontra in diverse manifestazioni, dal carattere
arrogante e impositivo della medicina ufficiale ai mattatoi. Ma, a differenza
di Quinzio che ribadisce l’attrazione per la “resurrezione dei morti, in cui si toccano la tenerezza del ritrovamento
e l’estremo orrore del macabro”, scrive di non sentirsi affatto
disperato perché esente dall’idea di salvezza.
A Quinzio che afferma di
vivere “nell’attesa di una catastrofe
risolutiva”, Ceronetti replica di presagire sì la catastrofe, di cui un
aspetto è lo sconvolgimento ambientale, ma di non attenderla “come parusia cristiana”. “Non spero niente dalla storia e dal tempo",
ammette con il cuore che “ogni tanto
vaga per i Gangi e per i conventi taoisti”: “la storia e il suo finito non mi possono persuadere, il tempo non mi si
chiude in un ruotare di lancette che trafiggono, insomma la tortura non
me la vado a cercare (questo è più
ebraico che cristiano, forse)”. Alla speranza “paolina” di Quinzio “di
non essere spogliato dalla morte ma sopravestito dalla resurrezione”,
Ceronetti, disilluso, contrappone la ricchezza di una parola discesa sul caos,
una parola che cerchi di "rendere poetico l'ineluttabile".
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