Francesco Pullia
In Tibet si brucia. Anche
in questi giorni. Nel quasi totale silenzio dell’informazione, sono arrivati a
131 i tibetani che negli ultimi cinque anni hanno deciso di sacrificare la
propria vita con il fuoco per denunciare al mondo intero la repressione attuata dalla Cina nel loro paese. Le fiamme
si alzano, i corpi si anneriscono. Il pensiero inevitabilmente corre al lontano
1963, al monaco vietnamita che nel centro di Saigon si immolò per protestare
contro la politica di discriminazione
religiosa del proprio governo. Un inferno durato circa un quarto d’ora, senza
grida, senza lamenti, che allora scosse l’opinione pubblica. Le sconvolgenti
immagini del martirio fecero il giro dei quattro angoli del pianeta.
Trentacinque anni dopo, ma in un altro contesto, un analogo gesto. A New Delhi,
Pawo Thupten Ngodup, uno dei centomila esuli tibetani riusciti fortunosamente a
raggiungere l’India, militante del Tibetan Youth Congress (un’organizzazione
giovanile che rivendica l’indipendenza del Tibet dal mostro cinese), anziché
consegnarsi alla polizia indiana, che voleva obbligarlo a smettere uno sciopero
della fame protrattosi da una cinquantina di giorni, preferì trasformarsi in
una pira. Speravamo rimanesse un caso isolato. Purtroppo non è stato così.
Sono
tanti, troppi, i giovani, monaci o laici, che, con un incremento dal 2009 ai
nostri giorni, hanno seguito il suo esempio. Può sembrare assurdo, e difatti lo
è, darsi la morte in questo modo atroce. Ma il giudizio diviene meno perentorio
una volta che ci si renda conto di quanto sia straziante assistere al genocidio
del proprio popolo da parte di un paese straniero, alla tragedia di una terra
invasa nel 1950, in spregio al diritto internazionale, dalle truppe della
Repubblica popolare cinese e teatro, nella deplorevole inerzia degli stati
occidentali, di una spietata colonizzazione. Basti considerare che
nell’altopiano himalayano culla del buddhismo lamaista, i tibetani sono ridotti
ad una minoranza di appena sei milioni, rispetto a quasi dieci milioni di
immigrati cinesi. Non è un caso che la Cina si sia spesa nella costruzione
della linea ferroviaria più alta del mondo, nota come la Pechino-Lhasa, che
arriva a transitare ad oltre 5000 m. sul livello del mare. L’invasione del
Tibet da parte dei cinesi non conosce soste e, come una piovra, abbraccia
tutto.
Se
sei tibetano, in Tibet non puoi studiare e parlare la tua lingua, praticare il
buddhismo, seguire la millenaria tradizione della tua gente, sventolare la
bandiera della terra in cui sei nato (quella con i raggi rossi e blu, il sole
splendente, i due leoni di montagna, i simboli che rimandano all’insegnamento
buddhista) e tanto meno avere un’immagine del Dalai Lama, il leader religioso e
politico, fervente e rigoroso sostenitore della nonviolenza, costretto, come si
sa, dai cinesi a fuggire nel 1959 in India, a Dharamsala, nella regione dell’Himachal
Pradesh. Se te la trovano addosso o in un angolo della casa, ti spediscono
dritto dritto a marcire in galera o in un campo di concentramento.
Il
processo di annientamento dei tibetani viene scientemente perpetrato dalla Cina
tramite la disintegrazione della loro identità, lo stravolgimento di abitudini
e costumi, il severo controllo delle nascite (anche con il ricorso alla
sterilizzazione e agli aborti forzati), la deforestazione e il depauperamento
delle preziose risorse boschive e minerarie, la trasformazione di vaste aree in
depositi di scorie radioattive, l’urbanizzazione di numerosi gruppi nomadi
abituati da sempre a vivere di pastorizia, l’immissione di colture intensive
del tutto estranee alla vocazione del territorio.
In
breve, il Tibet di oggi rischia di sparire, interamente fagocitato da Pechino.
Poco dell’inestimabile patrimonio artistico, culturale, religioso, si è salvato
dalla furia iconoclasta delle guardie rosse maoiste che, nel 1969, oltre a
sottoporre monaci e abitanti ad umilianti processi “rieducativi”, ridussero in
macerie più di 6500 tra templi e monasteri. Gli
occidentali non devono lasciarsi fuorviare dalle attuali finte ricostruzioni:
rispondono esclusivamente a una bieca operazione di marketing turistico. Il
danno ormai è irreparabile e se una cultura plurisecolare non si è, per
fortuna, ancora dissolta lo si deve alla tenace opera dei profughi che, sulle
orme del Dalai Lama, sono riusciti a scappare dall’inferno, traversando, in
viaggi rocamboleschi, altitudini impervie ricoperte di ghiaccio e piene di
insidie. Molti ce l’hanno fatta. Tanti altri, purtroppo, no e sono morti
sopraffatti dal gelo e dalla fame o colpiti dalle pallottole dei militari
cinesi. Dietro l’immagine macchiettistica, quasi da Disneyland asiatico, che la
Cina vorrebbe veicolare del Tibet, ad uso e consumo di sprovveduti occidentali,
si cela, in realtà, una tragedia d’immane portata che non può e non deve
lasciarci indifferenti.
Quei
corpi carbonizzati ci chiamano implorando aiuto. Testimoniano, bisogna pur
dirlo anche se con amarezza, il fallimento della politica di dialogo con il
Leviatano cinese inutilmente caldeggiata da venticinque anni dallo stesso Dalai
Lama. Splendide intenzioni finite in fumo. Invano la guida spirituale tibetana
ha ostinatamente perorato una “via di mezzo” che salvasse il salvabile
rivendicando per il suo Tibet non l’indipendenza ma l’autonomia all’interno del
composito impero cinese. Niente da fare. La sua saggezza ha dovuto arenarsi
dinanzi alla tetragona arroganza di Pechino. E così colui che è ritenuto
incarnazione del Buddha della compassione è stato costretto a sopportare
vergognosi ritardi, colloqui dilazionati e privi di significato tra i suoi
rappresentanti e i funzionari comunisti cinesi, ridicolizzato, accusato di capeggiare
una “cricca separatista" il cui scopo è la destabilizzazione del regime.
Emblematiche, in questo senso, le pressioni esercitate dalla satrapia cinese
ogniqualvolta il Dalai Lama si rechi in visita in uno stato. Si pensi alle
minacce rivolte, nel febbraio di quest’anno, al presidente americano Obama o a
quelle indirizzate al
primo ministro norvegese Erna Solberg costretto, l’8 maggio, ad ignorare
l’arrivo ad Oslo della guida buddhista. “Da anni i nostri rapporti con la Cina
sono difficili”, ha cercato di giustificarsi. Pechino ha interrotto le
relazioni commerciali e declinato gli incontri bilaterali con la Norvegia da
quando, nel 2010, fu assegnato il Nobel per la pace allo scrittore dissidente
Liu Xiaobo, a tutt'oggi ancora detenuto. La decisione del governo di Oslo, che
in passato ha manifestato simpatia e sostegno alla causa tibetana (il Dalai
Lama è stato insignito nel 1989 del premio Nobel per la pace), è indice di
resa, debolezza, capitolazione.
Certo
è che finché gli interessi economici continueranno ad avere il sopravvento
sulla questione dei diritti umani in Tibet e in tutta la Cina, il governo di
Pechino si sentirà legittimato a ritenersi intoccabile e a spadroneggiare. Ma
da nessuna parte è scritto che l’economia debba per forza mettere in secondo
piano il rispetto di diritti inderogabili. Un economista del livello di Amartya
Sen ha dimostrato, anzi, il contrario, e cioè che democrazia e sviluppo non
sono termini antitetici ma, appunto, straordinariamente interconnessi.
Dovrebbero saperlo quanti, da noi, si fanno promotori di sciagurate iniziative
volte a sbandierare, nel segno del peggiore opportunismo e di un machiavellismo
da quattro soldi, gli “strabilianti” traguardi ottenuti da Pechino guardandosi
bene, per non offendere la suscettibilità di funzionari d’ambasciata, dal
toccare il tema della violazione dei diritti in un paese che detiene il triste
primato di esecuzioni capitali.
Un
cambiamento di rotta è necessario se non vogliamo che ci ricada addosso l'onta
di centinaia di torce umane. Una presa di coscienza terrorizza i governanti
cinesi più di un devastante terremoto. La loro cecità e la loro spavalderia
nascondono, in realtà, la paura che, prima o poi (speriamo presto, molto
presto), anche nella terra del Dragone si verifichi un cataclisma politico
analogo a quello che spazzò via il totalitarismo comunista nell’Est europeo.
Ecco perché togliersi la vita è considerato da Pechino un intollerabile
atto sovversivo che non deve essere visto e conosciuto. I poliziotti girano
con gli estintori nelle città tibetane, pronti a intervenire. Se qualcuno si dà
fuoco, i testimoni vengono immediatamente dispersi. Non si devono scattare foto
o girare video. I corpi sono subito trafugati e fatti sparire. Chi
diffonde notizie è sottoposto a durissime pene detentive.
Quanto durerà questa
tragedia dipenderà da noi, solo da noi, da come saremo in grado di lasciarci
investire, attraversare e coinvolgere da un appello che ci riguarda, eccome. Ne
vanno di mezzo la nostra dignità e il senso stesso della democrazia, di quella
democrazia le cui fondamenta, se veramente salde, devono poggiare sulla fratellanza e sulla
solidarietà.
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