Annalisa Terranova
Appena
finito di leggere il celebrato romanzo di Marco Montemarano, La ricchezza (Neri
Pozza) sulla scapestrata e fallita generazione degli anni Settanta. Del clima
di allora ci ho trovato pochissimo. Il racconto è più che altro una nostalgica
esaltazione dell’amicizia totale, quasi salvifica e in ogni caso distruttiva,
dove mettere radici se ogni punto di riferimento – a cominciare da quelli familiari – vacilla.
E' ciò che accade al protagonista Giovanni detto
Hitchcock, circondato da comparse irritanti per il loro vuoto interiore e la
loro vocazione all’egoismo solipsistico.
Ci sono altri romanzi che su quegli anni aprono squarci interessanti. Metti
insieme i flash del peregrinare furente di un “compagno” all’università di
Bologna nel 1977, il suo struggente sentimento per Anna, il suo spaesamento e
la sua rabbia e ottieni il distillato del romanzo impegnato, il prototipo del
racconto della disobbedienza civile praticata dall’Autonomia: questo è stato Boccalone di Enrico Palandri, uscito nel
1979 e di recente riproposto da Bompiani.
Pagine dove domina la cifra
dell’inquietudine, della dissoluzione, l’ansia di rimettere in ordine i
dialoghi, le relazioni, gli amori. A destra, invece, in quegli stessi
arrabbiati anni Settanta chi intendeva fare letteratura della propria militanza
sognava il romanzo battagliero, ispirato alle pagine sulfuree di Gilles di Drieu La Rochelle (1939), il
dandy aristocratico circondate di femmine e fascista per “deviazione” dalla
modernità. E alla fine, molti anni dopo la prova di Palandri col suo Boccalone, è stato un ex missino convertito
al marxismo, lo scrittore operaio Antonio Pennacchi, a raccontare l’adolescenza
“nera” di chi sceglieva la Fiamma in una città, Latina-Littoria, che respira
assieme ai ricordi del Duce. Con il suo Il
fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi (da cui è stato tratto
il film Mio fratello è figlio unico),
Pennacchi mette in scena con stile antiretorico, preciso e autentico, limiti e
ambizioni di un nostalgismo che teneva in vita l’attivismo con la promessa
della continuazione della guerra perduta. «Una domenica mattina, dopo la messa,
sono andato al Msi a iscrivermi alla Giovane Italia. C’era uno di quindici o
sedici anni. Io solo tredici, e avevo paura che non mi desse la tessera. Invece
me l’ha data di corsa. La volevo pagare, ma me l’ha data gratis. Ci sono
rimasto quasi male: era come se avessi fatto io un favore a loro, non loro a
me. Gli ho anche chiesto: “Adesso che bisogna fare?”. Intendevo dire riunioni,
attività, qualunque cosa. “Che bisogna fare? Ti sei iscritto. Tutto qua”».
Il percorso di Accio Benassi è tutto
segnato dall’identità di un luogo, la città costruita dove prima c’era la
palude, che sovrasta ogni altra, fittizia e passeggera, appartenenza. «Per noi
all’inizio il fascismo era solo Benito Mussolini, che aveva bonificato le
paludi e fondato le città. Per noi ogni pietra – dalla chiesa di San Marco al
palazzo del comune – l’aveva messa il Duce e la palude l’aveva asciugata tutta
lui, da solo». Il personaggio di Pennacchi è rigido e al tempo stesso aperto e
curioso del proprio tempo. Troppo poco obbediente per essere solo “fascista”,
troppo poco conformista per essere solo “comunista”.
A Pennacchi e a Pelandri
ho guardato anche io scrivendo Vittoria, una storia degli anni Settanta (Giubilei Regnani). Vittoria è il titolo di un bel romanzo di Hamsun che ha allietato i miei giorni giovani, è un nome femminile molto suggestivo e assertivo, il nome adatto per una ragazzina fascista, ma è
anche uno stato d’animo: perché se si riesce a dare un senso al passato si è
sempre vittoriosi. Ma Vittoria è anche sfida a chi, quel passato, lo racconta
in modo edulcorato, magari allo scopo di riesumare gli stessi inautentici conflitti.
L’attitudine
alla ribellione solitaria, incompresa, c’è anche in un altro, più recente
personaggio, Pasquale Benassìa, protagonista del bel romanzo di Andrea Di
Consoli La collera (Rizzoli, 2012).
Anche Benassìa è un fascista che conosce le durezze del lavoro in fabbrica, uno
che legge Nietzsche per dare forza alla sua differenza, uno angosciato
dall’idea di non riuscire in una sola vita ad eccellere come avrebbe voluto. In
definitiva un disadattato. «Fascismo era un orgoglio superiore, una filosofia
che gli faceva desiderare il meglio senza passare per la porta larga
dell’elemosina socialista».
Ma per
raccontare l’impegno, la mobilitazione, la scelta politica, un clima simile a
quello narrato da Palandri nel suo Boccalone,
sia pur visto dall’altra parte della trincea, bisogna guardare a titoli meno
noti ma non per questo meno “istruttivi” nel rappresentare le aspirazioni della
destra giovanile filtrate attraverso la “prova” letteraria. Un obiettivo
centrato, ad esempio, dal giornalista Vincenzo Cerracchio con il suo romanzo Due soli (Il Filo, 2008, la storia di
Marco, studente romano del liceo Tacito simpatizzante di destra, della sua
passione per la Lazio e per Betta, dei fronteggiamenti in istituto, dell’uccisione
di Mikis Mantakas nel 1973, della consapevolezza che il mondo infantile dei
giochi si va colorando di rosso e di nero. Colori cupi che troviamo anche nel
romanzo di Duccio Cimatti, Piombo
(Piemme 2005), vicissitudini di un adolescente della periferia romana alle
prese con le prevaricazioni dei “neri”. Cimatti ha tra l’altro uno scopo ben
preciso: non se la sente, lui, di
contestualizzare, e non esita a condannare con forza chi ha intrapreso la
strada del terrorismo: «C’è che non era affatto inevitabile premere un
grilletto e innescare bombe, in tanti non l’abbiamo fatto. Non per codardia, o
perché non ce ne fregava niente. Al contrario: volevamo di più, volevamo altro,
non quello schifo di violenza e di retorica». Ambizioso e sofferto, infine, il
tentativo della scrittrice e regista Cristina Comencini con il suo romanzo L’illusione del bene (Feltrinelli 2007).
Fare i conti con il comunismo, da parte di chi ci ha creduto, da parte di chi
ha immaginato che quell’ideologia fosse una salvifica religione civile e poi si
è voltato dall’altra parte, senza “elaborare il lutto”, ma solo operando
rimozioni. Quelle che il protagonista del romanzo, Mario, non può più inseguire
nel momento in cui l’incontro con Sonja, figlia di una dissidente russa, lo porta
a scavare negli archivi dell’orrore dell’ex Unione sovietica. Uno specchio dove
molti comunisti “pentiti” non hanno mai voluto vedere il proprio tormentato
riflesso.
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