Annalisa Terranova
Si parla
tanto, forse troppo, dell’operazione trasparenza sui documenti riservati che
riguardano le stragi italiane. Non tutti applausi per il premier Matteo Renzi:
c’è chi fa notare, infatti, che sommergere un Paese con scarsa memoria di carte
e appunti può creare solo polveroni inutili a diradare le nebbie. E un
polverone accolse anche, nel 1990, la rivelazione di Giulio Andreotti
sull’organizzazione segreta chiamata Gladio. Ora Giacomo Pacini ricostruisce
con paziente accuratezza in un libro importante la preistoria di Gladio, le
organizzazioni di carattere analogo che dalla fine della guerra in poi sono
state costituite sul territorio italiano fino a concentrare la sua attenzione
sul cosiddetto Sid parallelo. Il libro si chiama Le altre Gladio. La lotta
segreta anticomunista in Italia 1943-1991 (Einaudi) e parte dalla creazione dei
nuclei clandestini coordinati dalla Sezione Calderini, reparto offensivo dei
neonati servizi segreti del governo Badoglio di cui facevano parte ufficiali
legati alla lotta partigiana.
Perché dalla sezione Calderini? Perché i
principali ufficiali dei servizi segreti responsabili di Gladio provenivano
proprio da lì. Ad esempio il maggiore Lanfaloni, che per conto della società
Torre Marina, da lui amministrata, acquistò nel 1954 i terreni in Sardegna su
cui sarebbe sorto il centro addestramento di Gladio. Dal Fronte militare
clandestino guidato da Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo proveniva anche
Giovanni De Lorenzo che, da capo del Sifar, diede il via libera alla struttura
Gladio. I presupposti ideologici sulla cui base nascono le strutture studiate
da Pacini risalgono al dissidio in seno alla resistenza tra la componente dei
partigiani cattolici e liberali della Osoppo e i garibaldini di orientamento
comunista. Gli osovani si convinsero, in particolare dopo l’eccidio di Porzus,
che la loro lotta non si sarebbe esaurita con la cacciata dei nazisti ma che
doveva continuare in funzione anticomunista per impedire ai titini di entrare a
Trieste (una convinzione talmente forte che vi furono anche contatti tra la
Osoppo e la Decima Mas a fine febbraio del 1945 con la mediazione di Antonio
Marceglia, l’affondatore delle corazzate inglesi Queen Elizabeth e Valiant).
Furono le turbolenze nell’area del Nord est e in particolare i drammatici
quaranta giorni di Trieste (con le violenze dei militari slavi nelle case dei
triestini) a motivare la scelta di creare presso il ministero degli Interni
l’Ufficio zone di confine che distribuiva fondi alle strutture, anche a
carattere armato, che si impegnavano a lottare contro la minaccia
slavo-comunista. Il principale referente dell’Ufficio zone di confine era
Giulio Andreotti. Tra le strutture seguite dall’Uzc c’erano anche i gruppi
clandestini creati dal colonnello Prospero Del Din che organizzò fin
dall’autunno del 1945, in accordo con le autorità alleate, la prima struttura
segreta di tipo stay behind sorta in Friuli e denominata “Fratelli d’Italia”. Dopo
la morte di Stalin nella Venezia Giulia si chiude il periodo delle “Gladio
antititine” e comincia l’organizzazione della Gladio antisovietica.
Renzo di
Ragogna, che comparve nei 622 operativi di Gladio, ha raccontato al giudice
Mastelloni di avere militato in una struttura segreta triestina chiamata Gruppi
di Autodifesa, addestrata da ufficiali dell’esercito italiano e che riceveva le
armi per il diretto interessamento del ministro della Difesa Taviani (le armi
per “Trieste italiana” erano smistate e
occultate per il tramite dell’ex partigiano piemontese Enrico Martini Mauri.
Del resto anche il Pci disponeva di una Gladio rossa con la missione di
preparare il terreno alla slavizzazione di Trieste e dei territori circostanti.
Un deposito di armi creato da Di Ragogna fu rinvenuto casualmente durante
lavori di ristrutturazione della stazione di Trieste (25 agosto 1954): si
trattava di 39 casse in cui erano nascosti centinaia di mitra, pistole,
mitragliatrici e oltre 750mila munizioni. Da note riservate si apprende inoltre
che il governo italiano veniva informato che nei Gruppi di Autodifesa operavano
anche elementi ultranazionalisti vicini al Msi. Sulle loro richieste di
finanziamento l’Ufficio zone di confine divenne più cauto dopo i tragici
avvenimenti del 5 e 6 novembre quando vennero posti sotto accusa i circoli
triestini di Cavana e Stazione dove erano presenti elementi pronti a tutto per
difendere l’italianità di Trieste e che erano fuori dal controllo del Msi.
In
quello stesso periodo i partigiani bianchi avevano creato una struttura
anticomunista addestrata alla guerriglia denominata Divisione Gorizia mentre
nell’area udinese operava la Organizzazione di difesa italiana. La disciolta
Osoppo si ricostituì nel dopoguerra con il nome “Volontari della Libertà” e poi
Organizzazione O. Fu senz’altro quest’ultima l’organizzazione anticomunista
segreta più importante sorta tra il 1945 e la nascita di Gladio (tra i compiti
della struttura anche la schedatura di elementi filotitini). Fu l’ex
repubblichino Franco Turco a spiegare che i capi della Organizzazione O erano
tutti democristiani ma che nella “truppa” vi era uno svariato numero di ex
fascisti, che il culmine della mobilitazione vi fu per le elezioni dell’aprile
del 1948 quando furono “piazzati mitra nelle case dinanzi ai seggi”. Di rilievo
anche il Movimento avanguardista cattolico italiano che faceva capo all’ex
partigiano bianco Pietro Cattaneo tra i cui referenti illustri spiccano i nomi
di Enrico Mattei e dell’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster. Nel caso del
Maci la rete militare occulta poteva contare, per nascondere le armi, anche
sulle parrocchie. Tra le carte di Cattaneo, inoltre, vi era documentazione
interessante sull’apparato militare del Pci e sul piano insurrezionale cui i
comunisti avrebbero potuto dar vita con un ordine dall’alto. Il Maci (il cui
ultimo congresso risale al 1957) agiva in pieno accordo con la Dc e godeva della protezione della Chiesa al
punto che il futuro papa Montini, divenuto nel 1955 arcivescovo di Milano, si
rivolse agli avanguardisti cattolici invitandoli a non pensare di poter
sciogliere le fila e deporre le armi.
E si arriva
a Gladio (1956), struttura che sorge sotto l’egida della Cia attraverso un patto di
collaborazione con il Sifar. Il Parlamento è all’oscuro di tutto, solo il
ministro della Difesa Taviani è al corrente dell’operazione. Poi saranno
informati anche il presidente della Repubblica Gronchi e quello del Consiglio Antonio Segni. Nata
come struttura che doveva attivarsi in caso di invasione, Gladio divenne negli
anni Sessanta un’organizzazione con compiti diversi, attrezzata cioè anche per
interventi interni (la Cia inviava materiale sulla contro-insorgenza che
riguardava tecniche di guerra psicologica e propagandistica). Il primo
“mistero” riguarda il ruolo del colonnello Aldo Specogna, ex partigiano Osoppo
e responsabile dei gladiatori del Nord est. In seguito al ritrovamento nel 1972
del deposito di armi di Gladio (Nasco) ad Aurisina per limitare il potere di
Specogna fu inviato al suo fianco il colonnello Giuseppe Cismondi il quale
distrusse l’elenco dei mille gladiatori di cui Specogna disponeva (quelli resi
noti da Andreotti, nel 1990, saranno solo 622). La tesi di Pacini è che Gladio
era una struttura legale e giustificata dal contesto i cui compiti però, in
particolare nell’area del Nord est, sconfinarono in territori diversi: in
quell’area si addestravano infatti gladiatori pronti anche ad agire
preventivamente contro l’opposizione. Dal ritrovamento del Nasco di Aurisina
l’autore ricostruisce i rapporti ambigui tra elementi di Ordine Nuovo e i
Nuclei per la difesa dello Stato organizzati sotto l'egida del Sid di Vito Miceli. Ciò che non torna
sul deposito di Aurisina, e che ha fornito la base di svariate ipotesi non
verificate, è che il materiale era stato manomesso e parte di esso risultava mancante.
Pacini segnala anche lo strano caso del crollo psichico del brigadiere Nicola
Pezzuto il quale sosteneva di avere informazioni segretissime su elementi di estrema
destra in Veneto (ciò guarda caso
proprio dopo il ritrovamento del Nasco di Aurisina). L’episodio del deposito
manomesso di Aurisina fu di tale gravità che venne ordinato subito dopo lo
smantellamento di tutti i depositi segreti di Gladio, disposto dal generale Gerardo Serravalle suscitando la profonda irritazione degli americani. Serravalle, a
sua volta, raccontò di Gladio in un romanzo di fantapolitica uscito nel 1994,
Il consiglio delle ombre (Pironti), nel quale faceva riferimento a una struttura
segreta composta da militari e civili da attivarsi in caso di invasione e che a
un certo punto deviò dai suoi compiti originari e venne data in pasto alla
stampa da un personaggio che cercava di rifarsi una verginità politica.
Un’accusa rivolta dunque, in modo neanche troppo velato, a Giulio Andreotti.
Com’è noto il magistrato Felice Casson sostenne che l’esplosivo della strage di
Peteano (31 maggio 1972) provenisse dal Nasco di Aurisina. Tesi contraddetta dal pm Salvini.
Centrali, per ricostruire l’intero contesto, le dichiarazioni di Vincenzo
Vinciguerra (ex militante di ON che si autoaccusò della strage di Peteano) per il quale Ordine Nuovo era un'organizzazione che al suo interno non contava solo “sinceri
camerati” ma personaggi che seguivano una “strategia dettata da centri di
potere nazionali e internazionali, collocati ai vertici dello Stato”. Questo "centro di potere" sarebbe appunto costituito dai Nuclei di difesa dello Stato (o Sid
Parallelo) che nell'area veneta facevano capo al colonnello Amos Spiazzi. Secondo l’autore di Le altre Gladio, Andreotti avrebbe abilmente dosato le
rivelazioni su Gladio proprio al fine di deviare l’attenzione da questa
organizzazione e dalle sue “malefatte”. Un’indiretta conferma proviene
dall’audizione dell’ex ministro Taviani in seduta segreta davanti alla
Commissione Stragi: “Nel periodo dello sfascio del Sifar e della confusione del
Sid (metà anni Settanta) erano stati assunti nei Servizi alcuni agenti di
complemento e parecchi confidenti.
Vennero definiti servizi paralleli e più
tardi sono stati equivocati con Gladio, mentre con essa non avevano nulla a che
fare. Dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo (1973) questi agenti di complemento
vennero liquidati. Alcuni di essi diventarono schegge impazzite…”. Da notare
che Piero Buscaroli nelle sue Memorie rievoca una conversazione con Taviani
nella quale l’allora ministro degli Interni avrebbe assicurato al giornalista,
che all’epoca dirigeva il quotidiano Roma, di essere al corrente che i fascisti
non avevano fatto le stragi perché le stragi erano responsabilità del Viminale.
Tuttavia Pacini documenta bene come, al di là dell’utilizzo di schegge
impazzite per azioni terroristiche che avevano come finalità la stabilizzazione
dell’assetto politico vigente, circolasse negli ambienti della destra (basti
pensare al convegno dell’Istituto Pollio all’hotel Parco dei Principi nel 1965 e alle successive iniziative in
linea con quel convegno) la tentazione di favorire un blocco d’ordine con i
militari in funzione anticomunista: una forma di patriottismo estremista che
non teneva conto o sorvolava sul suo essere conforme ai desiderata della Cia e
della Nato e dunque funzionale al mantenimento di una sovranità limitata
dell’Italia. Una tentazione che ha finito con il distruggere completamente le aspirazioni
sociali e popolari che pure erano presenti nel primo Msi e che hanno
cooperato a mantenere i postfascisti nell’area ghettizzante della destra
conservatrice. Di sicuro il contesto della guerra fredda giustificava questi
ragionamenti e non consentiva forse operazioni politiche più “ardite”. Ma è
bene favorire una rilettura ragionata di quella fase per evitare inutili,
agiografiche ricostruzioni della destra politica negli anni Settanta, una storia
che ci rimanda episodi di attivismo generoso, di eroica sopravvivenza
all’accerchiamento “nemico” ma anche fasi di grande ambiguità sulle quali non è
stata fatta fino in fondo chiarezza, proprio mentre giovani vite di ragazzi
innocenti venivano spente dall’odio antifascista alimentato dalla certezza che
dietro le stragi c’erano le mani dei “neri”.
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