lunedì 5 agosto 2013

Le lettere giovanili di Cioran, dardi contro il demiurgo malvagio



Francesco Pullia

“Solo gli stati anormali sono fecondi... il destino individuale, come realtà interiore, irrazionale e immanente, ci è rivelato solo nel dolore, che rappresenta la sola via che ci permette di comprendere in maniera più profonda i problemi personali”. Inviate a diversi destinatari, e in particolare all’amico d’infanzia Bucur Ţincu, le Lettere al culmine della disperazione (1930-1934) di Emil Cioran (1911-1915), pubblicate da Mimesis a cura di Giovanni Rotiroti, nella traduzione di Marisa Salzullo e con postfazione di Antonio Di Gennaro, non solo non appaiono datate ma costituiscono un sano antidoto alla mediocrità sempre più dilagante nella nostra società. Fustigatore dell’umana miseria e della viltà di chi, concependo l’esistenza come “solo un piacevole cullarsi”, sceglie di galleggiare nell’acquitrino del “senso comune”, il filosofo rumeno in queste epistole giovanili lascia presagire temi che caratterizzeranno, nell’arco degli anni, il suo pensiero: il pessimismo catartico, la critica serrata e irriverente nei confronti del razionalismo, la demolizione della sistematica, l’infiammata invettiva antiumanistica, l’attacco, di matrice gnostica, all’influenza su questo mondo di un demiurgo malvagio.
In alcune missive risalenti al 1933-34 si ammette la fascinazione subita dal nazismo, conosciuto nel corso della permanenza a Berlino e a Monaco. Tuttavia, di questo cedimento Cioran non esiterà a provare profonda vergogna. Se, infatti, in una corrispondenza del 1934 si spinge a riconoscere avventatamente nel Führer colui che ha dinamizzato “con un soffio messianico tutto un sistema di valori che il razionalismo democratico ha reso solamente piatti e triviali”, più tardi, nei Quaderni, ammetterà di avere condotto a Berlino, nel 1934-35, “una vita da allucinato, da pazzo, in una solitudine quasi totale” e di essere “segnato per sempre” da quel soggiorno (considerato come “l’apice negativo” della sua vita): “Mi viene in mente all’improvviso”, scriverà, “quel film sulla carriera di Churchill. Ci sono alcune scene di vita tedesca […], in particolare una manifestazione nazista. Hitler vi appare in primo piano, e ha tutta l’aria di un pazzo da manicomio, con gli occhi persi, i tratti tesi e sconvolti, il viso attonito. Se una pallottola lo avesse ammazzato si sarebbero salvate milioni di vite. Ma la Provvidenza ha protetto il mostro e lo ha fatto vivere…”. La riprova del repentino superamento dello sbandamento è attestata, d’altronde, dalla costante demistificazione, in lui presente, di ogni sorta di fanatismo e di infatuazione ideologica. Ben distante da una visione esaltante, il nazismo gli si rivelerà, dunque, ben presto una delle tante sfumature della retorica strisciante e predominante nella società. In queste lettere si riscontra un’attitudine tutta particolare a “vedere al di là delle forme simboliche d’espressione” e a demolire ogni forma d’insopportabile ipocrisia, sia nel pensiero (come l’erudizione che “corrompe le inclinazioni filosofiche dell’uomo, lo storicizza e lo sottrae alla pura contemplazione che è la fonte della creazione filosofica”) che nella quotidianità (“la falsa modestia” tipica di chi è mellifluo e frustrato). Il giovane Cioran denuncia un mondo appiattito nel conformismo, “privo di distinzione interiore, incapace di paradosso, profondità o irrazionalità”, trova terreno prediletto in Pascal (“Tutto quello che ho pensato sul dolore e sulla malattia l’ho trovato lì”, annota riferendosi ad una biografia del filosofo francese), Kierkegaard, Nietzsche, Dostoevskij, Malraux (“un autore con cui ho grandi analogie spirituali”), lancia i suoi strali all’indirizzo del giornalismo visto come antitetico al filosofare.


Più hai cultura”, si sfoga con parole amare e veritiere, “più il giornalismo rappresenta un grandissimo pericolo che ti spinge progressivamente a smettere: ciò non vale per gli inconcludenti, per loro costituisce un contesto stimolante per aspirazioni vaghe ed embrionali”. Da questi semi nascerà di lì a breve il primo libro, Al culmine della disperazione (1934), che lo imporrà alla pubblica attenzione, sancendo, nero su bianco, la sua rottura con la filosofia occidentale.
“Al culmine della più terribile disperazione”, scrive a Petre Comarnescu nel 1933, “mi prende la gioia di avere un destino, di vivere una vita con la morte e le sue successive trasfigurazioni, di fare di ogni istante un bivio. E sono fiero che la mia vita inizi con la morte, a differenza della vita della maggior parte degli uomini che finisce con la morte. Io sento la morte nel passato e il futuro lo vedo come una specie di illuminazione personale… Come puoi notare da ciò, ho finito di saldare completamente i miei conti con la filosofia ufficiale”.    

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