mercoledì 17 aprile 2013

La verità, vi prego, sulla scuola...





Annalisa Terranova

Bisogna andare a un ricevimento pomeridiano dei professori per capire come sta messa la scuola italiana. Fate conto che questa sia la sintesi del racconto di qualche amica o amico che ci sono passati, in ogni caso è tutto vero, e tutto facilmente verificabile. Innanzitutto colpisce lo straordinario caos in cui si svolgono i colloqui. Madri, padri e a volte anche nonni si accalcano davanti ai cancelli molto prima dell’ora di inizio pronti a spintonare, a scavalcare, a sgomitare per iscriversi in lista tra i primi dieci. Fuori da quel gruppo di eletti iscritto ai primi posti sei uno sfigato. E sei sfigato pure se non hai l’amica che ti segna al posto tuo: ci sono squadracce di mamme che assediano il foglio che penzola indifeso sulla porta della classe, lo sequestrano con piglio banditesco e sotto il nome del professore di italiano o di matematica o di inglese scrivono il loro nome, quello dell’amica, quello dell’amica dell’amica, quello dell’amica dell’amica dell’amica. Se protesti ti guardano come un pezzente, come un intruso, e ti fanno con sopracciglio alzato: “Ce l’ha la penna, vuole che la segni io?”. Perché la legge vuole così: c’è chi si segna e chi viene segnato.
Poi comincia il rito. Madri e padri (in numero inferiore) stanno fuori dalle aule in piedi (nessuno che pensi a mettere due sedie, per carità) e si raccomandano: certo bisognerebbe essere rapidi, telegrafici concisi. Poi, quando è il turno loro, si fanno chiacchierate da pub. Ma soprattutto, mentre aspettano, si lamentano. Si lamentano dei professori con cui stanno per parlare, ne mettono a nudo i vizi, i tic, le fisse, le mancanze, sentenziano che sono impreparati, che non hanno metodo, che non tengono la classe, che i loro figlioli con un altro insegnante darebbero il meglio, che quello (o quella) intimidisce gli alunni. Insomma, una lagna infinita, uno strazio acuito dal fatto che il tempo sembra non passare mai. Sul foglio ci sono 60 nomi? Dopo un’ora e mezza sì e no 15 genitori (quando va bene) sono riusciti a varcare l’agognata soglia dell'aula. I professori, sorriso di circostanza scocciato stampato in faccia, chiedono con aria sadica: “Ci sono ancora tanti genitori?”. “Una fila lunghissima”. “Ah, si accomodi”. E sembrano compiaciuti di potersi prendere una vendetta contro i genitori che a pochi metri di distanza gli stanno demolendo la carriera a suon di chiacchiere e aneddoti velenosi. Si godono la loro rivincita: quello è il momento in cui la materia che insegnano, a dispetto di ciò che avviene in classe, risulta importante, significativa, cruciale. E’ chiaro che le famiglie non si fidano del corpo insegnante e vengono ricambiate con indifferenza e rassegnazione. Quando poi finalmente ti trovi faccia a faccia con il professore la sintesi è sempre la stessa: il ragazzo (la ragazza) è intelligente, ma potrebbe fare di più. L’ultimo compito? Ah, non l’ho ancora corretto. Si capisce che bramano studenti appassionati e non ce l'hanno, si intuisce una certa svogliatezza, a tutti manca un feedback soddisfacente. Intanto, fuori dall’aula, quelli che stanno dal 40esimo posto in giù ti dardeggiano con occhiate di furia e guardano l’orologio.
A me sembra che questo rito meglio di altri possa far comprendere una cosa banale ma importante: la confusione dei ruoli gigantesca che impedisce alla scuola di funzionare anche nelle circostanze più semplici. I docenti fanno gli psicologi, i genitori non sanno fare i genitori ma si sentono un po’ docenti anche loro. E gli alunni? Gli alunni sono assolti con formula piena: massacrati da troppe ore di vegetazione sui banchi, alle prese con manuali sofisticati e incomprensibili, mancanti dell’unico strumento che servirebbe loro, e cioè un canale di comunicazione con il mondo adulto. Alla fine i professori se ne vanno a casa sfiancati, con le loro frustrazioni intatte e forse persino rafforzate. Le bidelle tolgono soddisfatte i fogli con le liste dalle aule. I genitori corrono per le scale felici di avere sacrificato un pomeriggio sull’altare della formazione, cinguettando al cellulare: “Ho finito ora, arrivo”. E tutto ricomincia come prima. E’ una scuola che si può amare questa? Viene in mente Ernst Junger che racconta di come la scuola non lo attraesse affatto, di come trovava sempre modo di deviare dalla strada che lo conduceva in classe per osservare insetti e fili d’erba. Ma lui era un saggio, forse addirittura un iniziato. Per tutti gli altri c’è la scuola di massa, inutile, inerte, arretrata. Un mondo dove dovrebbe esserci vita, vita dello spirito, e invece c’è solo routine, un pigro e indolente “tirare a campare”.  

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