domenica 16 giugno 2013

Perché è sbagliato imporre per legge la memoria storica




Annalisa Terranova

È di grande interesse l’intervento odierno di Marcello Flores su “la Lettura” (inserto domenicale del Corriere della sera) a proposito della legge che punisce l’apologia dei crimini di genocidio. Vi si fa riferimento a un ddl di modifica dell’attuale legge n.654 del 1975 attraverso un comma che così recita: “È punito con la reclusione fino a tre anni chiunque, con comportamenti idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra come definiti dagli articoli 6,7 e 8 dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale”. Un intervento che tocca il delicato e cruciale tema della memoria (e che sarà al centro di un congresso internazionale di storici del genocidio che si terrà a Siena dal 19 giugno) ed esprime legittimi dubbi sulla possibilità di imporre dall’alto una sensibilità collettiva rispetto agli avvenimenti storici. Flores si chiede non a torto quali sono i genocidi riconosciuti come tali e come ci si dovrà comportare dinanzi a crimini che nessun tribunale ha sanzionato (i crimini dei Gulag) o su cui esiste una controversia aperta (Srebrenica) o che non sono riconosciuti come tali (il genocidio degli Armeni). È vero che il pensiero corre subito allo sterminio degli ebrei ma fin dove è lecito spingere la repressione antinegazionista? Al di là della doverosa opera di informazione-educazione nelle scuole verso chi scatteranno le denunce? Senza contare che il rischio è quello di far passare per martiri della libertà d’espressione coloro che minimizzano o, peggio, rivendicano la libertà d’indagine storica per supportare la propaganda ideologica di tesi razziste. Leggi contro il razzismo ci sono già, e tali norme non hanno eliminato il problema senza contare la contraddizione lampante tra una legge come quella ricordata e l’ordinamento italiano che ancora non prevede il reato di tortura.
L’aspetto più emblematico della questione è però il rapporto tra verità di Stato e verità degli storici. Quali sono i soggetti deputati a stabilire cosa e come ricordare? Di certo la scelta tra uno Stato che si arroga questo diritto, sia pure sulla base di indicazioni internazionali, e la comunità degli studiosi che vi si oppone (come avvenuto in Francia) cade naturalmente, ovviamente, sulla seconda ipotesi perché appare indubbiamente come quella più idonea a garantire il diritto alla conoscenza e alla separazione tra la stessa conoscenza e le emozioni che essa produce. In altre parole la riprovazione e la condanna morale che i crimini contro l’umanità suscitano sono sentimenti talmente naturali che la loro “imposizione” per legge rischia quasi di legittimare atteggiamenti contrari. La repressione del lato disumano delle società è appunto un connotato riconoscibile nelle società sane e ciò avviene a un livello etico profondo che nessuna norma di legge può determinare.

Il discorso si intreccia con quello, altrettanto complesso, dell’atteggiamento degli Stati deboli, come quello italiano, dinanzi alla storia del Novecento. Ne ha parlato Giovanni De Luna di recente nel suo libro La Repubblica del dolore (Feltrinelli 2011) mettendo in luce come l’idea di una memoria pubblica (o condivisa) nel nostro paese resta un tema ancora sottoposto ad incognite e interrogativi irrisolti. Secondo De Luna – e  non si può dargli torto – più lo Stato ha accentuato la sua separatezza nei confronti della società civile più ha moltiplicato le incursioni sul terreno della memoria e degli universi simbolici ad essa collegati. Tutta una serie di “leggi del ricordo” hanno avuto come scopo il tentativo di proporre “come contenuto del patto fondativo della nostra memoria il dolore e il lutto che scaturiscono dal ricordo delle vittime. Della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, delle catastrofi naturali, del dovere, vittime, sempre e solo vittime… E alla fine la Repubblica del dolore che affiora dall’intricata selva delle leggi memoriali sembra improntata alle narrazioni che scaturiscono direttamente dalla televisione del dolore”. La politica ha gestito questo processo a scapito della verità e della corretta informazione impedendo uno spazio condiviso di confronto e di elaborazione per perpetuare la logica del bipolarismo anche nella memoria. Il paradigma delle vittime posto al centro della memoria collettiva, in altre parole, ha indicato la via dell’emozione condivisa come la strada più comoda per aggirare le verità storiche e assolvere le precedenti generazioni. Ma dietro al paravento le divisioni sono ancora lì, ad impedire ogni reale riconciliazione, a fare scudo a una verità che le leggi non possono imporre per decreto, a bloccare il lavoro degli storici sotto il fuoco incrociato delle demonizzazioni reciproche.  

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