domenica 9 giugno 2013

Orsola Nemi, la scrittrice "timida" che sapeva pungere con grazia...



Annalisa Terranova

Orsola Nemi nasceva l’11 giugno di centodieci anni fa, nel 1903, a Firenze. Oggi la si definirebbe una scrittrice di nicchia, raffinata e lontana dai riflettori. Ma di un’autenticità, uno stile, una profondità di cui si sente la mancanza: basta dare un’occhiata alle classifiche dei libri più venduti (Camilleri, Dan Brown, Roberto Saviano…). Il vero nome era Flora Vezzani, scelse il suo nome de plum pensando al padre, ufficiale caduto nel giorno di Sant’Orsola. Fu compagna di vita del poeta e scrittore Henry Furst, ex legionario fiumano. La cultura di destra le è debitrice delle traduzioni dei romanzi di Robert Brasillach, ma Orsola Nemi tradusse anche Flaubert, Baudelaire, Rimbaud, Saint-Simon, Chateaubriand, Chesterton. Il suo primo romanzo, Rococò, risale al 1940. Seguirono una raccolta di poesie, Cronaca, e poi Maddalena della palude (1949), Rotta a Nord (1954), I gioielli rubati (1958), Il sarto stregato (1960), Camicie Rosse (1961) e Le signore Barabino (1965). Collaborò con la Gazzetta del Popolo, L’Italiano, Il Messaggero, Letteratura e il Borghese.
Maurizio Serra su Sette in un articolo del 2012 rivalutava il suo Taccuino di una donna timida (Il Borghese 1969), riflessioni relative al decennio 1955-1965 che “descrivono il rovescio del miracolo economico di quegli anni. Nemi parla degli uomini che distruggono la natura, sfruttano le bestie fedeli, umiliano i più deboli, trascurano i vecchi e i malati, si prosternano ai potenti, ignorano le virtù del silenzio e dell’ascolto, perdono con la ricchezza e il successo il rispetto di se stessi e del prossimo”. Il suo modo di scrivere risulta addirittura terapeutico perché “cerca di dialogare con il lettore, invece di sedurlo o stordirlo”.
Nel 1972 pubblica un pamphlet (Cristiani dimezzati, Rusconi) in cui dileggia i cattolici di sinistra, coloro che per inseguire i continui compromessi con la modernità e con le sue nevrosi hanno rinunciato a ogni barlume di influenza religiosa nelle loro esistenze. Celebre il suo attacco a Moravia che sul Corriere della sera aveva celebrato il sincretismo religioso afro-brasiliano sostenendo che ad ogni divinità africana corrisponde una o più divinità cattoliche. Orsola Nemi replica: “A me, per esempio, non era affatto noto che i cattolici fossero politeisti. Non me n’ero mai accorta, né leggendo la Bibbia, né leggendo i Padri della Chiesa, o i mistici o i teologhi. Né San Paolo né Sant’Agostino me lo avevano detto. Se si parlasse di una religione orientale o di un culto polinesiano col modo approssimativo usato da Moravia per la nostra religione, si sarebbe accusati di incultura. Ma ignorare il cristianesimo, anzi il cattolicesimo, può essere elegante disinvoltura e poi fa tanto progressivo”. Una citazione che fa ben trasparire la pacatezza dello stile sorretto da forti convinzioni, uno stile molto distante dal politicamente scorretto utilizzato oggi da certi divulgatori neocinici reclutati dalla destra. Nel Taccuino il tema della fede da difendere contro l’irrisione illuminista è ricorrente e troviamo persino l’elogio di un prevosto che durante la messa prega Dio perché salvi il mondo dal pericolo del comunismo. Scrive a proposito della fede cristiana: “Il salmo 47 dice che il Signore manda la neve, come lana che tiene calda la terra; sparge la fresca brina che brucia come la brace. Mi pare si possa intendere che il Signore si compiace di poetici inganni. Meglio per noi dunque e per tutti quelli che non temono l’inganno e sempre si sentono rimproverare di prendere lucciole per lanterne. Alla fine, la nostra lucciola farà più lume delle lanterne razionali…”. Certo vi si incontrano anche delle ingenuità, come quando per dire che la vera forza della donna sta nella seduzione scrive di non avere mai sentito di una tragedia amorosa accaduta per un’avvocatessa o una deputata. Come se le donne, dunque, non avessero bisogno di studiare in virtù del loro “privilegio naturale”, cioè la capacità di attrarre l’altro sesso. Visione riduttiva, certamente, anche se di certo Orsola Nemi non pensava di contrapporre alle laureande le veline (lei che nel suo curriculum non aveva una laurea), gioco dialettico che spetterà molto dopo ai fedelissimi di Arcore ma, da vera cultrice di belle lettere, intendeva parlare quello che per Bachofen era il vero “potere femminile”, una “specificità” naturalmente data e non acquisita attraverso sforzi intellettuali. Come tutti i genuini conservatori era allarmata dallo sgretolamento dei valori di un passato rassicurante ma non poteva ancora immaginare che, oltre lo scempio del materialismo comunista, ci sarebbe stato quello, anche peggiore, della volgarità dell’uomo che, dopo essersi rivolto contro Dio, si ribella contro se stesso. O meglio lo intuisce, e cerca di capire, prima ancora di condannare, di inveire, di puntare l’indice, vuole indagare, vuole riflettere. Con la piana ironia di chi sa che per divulgare valori e sentimenti non occorre la “bava alla bocca”. E’ la sua cifra. La sua modalità. Che la rende deliziosamente fuori moda, inattuale come tutte le cose che vale la pena di riscoprire e di rimpiangere soprattutto in epoca di vuoti talk show, veicolo della neolingua dei media che toglie profondità a ogni significato.




Infine, un’altra citazione dal Taccuino, fuori contesto, ma solidissima: “Margherita Sarfatti mi diceva di non amare le bestie e volle spiegare meglio il suo pensiero. Amo soltanto le mosche, disse, perché posso schiacciarle. Mi ispirò disgusto anche perché sentivo che in lei la letterata era soddisfatta della frase, e in realtà non provava nessun piacere nello schiacciare le mosche. Però, io sono del suo stesso sentimento nei riguardi della radio. Mi piace la radio perché posso chiuderla. Posso interrompere le voci alla brillantina che gemono d’amore, le conversazioni culturali, le allocuzioni di chi vorrebbe a ogni costo convincermi a pensare come lui, i discorsi dei ministri che sembrano rivolti a un popolo di agnelli pascolanti in un paese di latte e miele. Giro un bottone e tronco la parola in bocca a tutta questa gente. E’ un piacere da re, anzi da Caligola”. Correva l’anno 1955…

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