giovedì 6 giugno 2013

Impeccabili al mondo: Taino e i koan per il nostro tempo


Francesco Pullia

È il 1967 quando Luigi Mario, romano, classe 1938, appassionato di sci e di scalate, con un posto fisso in banca, spinto da un impellente bisogno di ricerca interiore, in un periodo di grandi fermenti culturali, molla tutto e se ne va in Giappone per entrare direttamente in contatto con la tradizione zen. Non è un uomo di mezze misure né un intellettuale salottiero, ma un sincero cercatore di verità che vuole sperimentare su di sé un’alternativa di vita alla società dei consumi senza lasciarsi irretire da allettanti, quanto illusorie, ideologie di comodo. Finisce nel monastero Shofukuji di Kobe, dove diviene servitore personale del roshi (anziano maestro) Yamada Mumon che, dopo averlo messo duramente alla prova, lo ordina nel 1971 monaco con il nome di Engaku Taino. Due anni dopo si sposa con Kiyoka e decide di tornare in Italia. Acquista un casale con terreno a Pian del Vantaggio, in una zona collinare nei pressi di Orvieto e lo ristruttura per fondarvi Scaramuccia Bukkosan (Montagna della luce di Buddha) Zenshinji (tempio del cuore zen), primo centro zen europeo. Non soltanto un luogo dove meditare e praticare secondo la tradizione Rinzai zen (derivante dalla scuola del cinese Lin Chi, in giapponese Rinzai Gigen, vissuto nel IX secolo), ma un posto divenuto ben presto punto di riferimento per chiunque voglia avvicinarsi al buddhismo anche tramite approcci desueti come l’arrampicata.
Scaramuccia, si legge nell’apposito sito (www.zenshinji.org), non persegue intenti fideistici e tanto meno di proselitismo: per potere farne parte è necessario aderire, nel profondo dell’animo, ai quattro voti dei bodhisattva (salvare tutti gli esseri, estirpare le brame, comprendere tutte le leggi, realizzare l’illuminazione) e agli otto rivolti al sociale (per l’accettazione, per la solidarietà, per la sincerità, per l’uguaglianza, per la parità tra i sessi, per la libertà, per la benevolenza, per il rispetto di ogni esistenza). La peculiarità dell’insegnamento di Taino sta nell’avere saputo innestare nel solco di un lignaggio secolare contenuti fortemente innovatori, tanto da fare storcere il naso a chi si volge al buddhismo non con spirito di apertura, antidogmatico, come dovrebbe e come ha incessantemente esortato a fare lo stesso Buddha storico, Sakyamuni,  ma con la mentalità codina, bacchettona, tipica di tanti frustrati occidentali.
Dopo l’infatuazione sessantottina, culminata purtroppo nel settarismo e nel rovinoso irrigidimento ideologico, e dopo l’impietosa caduta, negli anni Novanta, delle grandi narrazioni che avevano fatto da sostrato a velleitarismi non senza esiti violenti, alcuni non hanno avuto nulla di meglio da fare che tentare di sopire il proprio smarrimento per la perdita di referenti “forti” gettandosi, a corpo morto, nel buddhismo con enfasi, per così dire, dogmatico-clericale. Di qui distorsioni, fanatismi, ebetismi, vane pretenziosità miracolistiche. In realtà, il buddhismo costituisce uno degli approcci spirituali più laici ed equilibrati all’esistenza, insistendo non sul potere salvifico di qualche grazia o sull’intervento divino, ma sulla responsabilità individuale, sulla nostra capacità di cambiare la mente per realizzare la vacuità di tutto. Engaku Taino, in questo senso, svolge un ruolo molto importante, perseverando lungo scomodi sentieri.


In Buddismo contemporaneo (Iacobelli editore, € 15,00), l’ultimo suo libro che raccoglie, come recita il sottotitolo, “48 koan (aneddoti, brevi racconti, spesso paradossali, adoperati nello zen con lo scopo di stimolare la comprensione della vera natura delle cose, ndr) per donne e uomini d’oggi”, ce ne parla lui stesso: “Le modifiche che ho introdotto hanno avuto come conseguenza lo strappo nelle relazioni con il mio vecchio monastero, ma ritengo siano state necessarie perché la cultura qui in Italia è diversa e lo zen è una via di conoscenza che ha valore universale; è una pratica, o una filosofia messa in pratica, che non bisogno di regole ferree o di una codificazione univoca sono convinto che lo zen si debba de-giapponesizzare, così come i giapponesi lo hanno de-cinesizzato”.
Di qui la “libertà” di coniare nuovi koan. A questo proposito, Taino ammette di essere ben consapevole della loro differenza con quelli trasmessi dalla tradizione, ma diversi sono, d’altronde, il contesto storico, culturale, sociale in cui sono stati concepiti e i destinatari cui sono diretti. In Buddismo contemporaneo vengono proposti koan derivati da due raccolte del maestro risalenti al 2003 e al 2005. Il numero 48 non è causale ma è in onore del Mumonkan (letteralmente “La porta senza porta”) tra i testi più studiati del buddhismo zen (in italiano lo si può trovare nelle traduzioni pubblicate da Astrolabio Ubaldini e Adelphi, ma anche Taino lo ha tradotto ed edito in proprio nel 2009) compilato nel XIII secolo dal cinese Wumen Hui-k'ai (in giapponese, Mumon Ekai, 1183-1260).
Fondamentali nella pratica zen, i koan, come sottolinea Taino, sono indispensabili per vivere impeccabili nel mondo, intendendo per impeccabilità la condizione che consente di occuparci di tutto ma dalla giusta distanza, sì da non lasciarci sconvolgere dagli accadimenti.
“Chi immagina che l’illuminazione faccia vivere in uno stato di estasi perenne o di gioia ininterrotta, sbaglia”, spiega Taino. Vivere con e in consapevolezza significa, allora, continuare a vivere come sempre ma “immedesimati in quello che svolgiamo, presenti a noi stessi, sereni nel sapere che qualsiasi azione si compia, a livello assoluto non accade nulla”. In altri termini, in ognuno di noi è intrinsecamente presente la natura di Buddha, ma un conto è saperlo, un altro sperimentarlo. Per farlo, dobbiamo realizzare l’assoluto nel relativo.


Nell’assoluto “niente è impossibile e tutto vi è compreso”, nel relativo, invece, bisogna sapersi adattare, imparare a compiere scelte, nella consapevolezza che queste ultime varranno solo per il contingente e non in assoluto. Non ci sono parole per descrivere questa condizione. Occorre solo esperirla, trovarla da sé. Una volta che lo si è fatto, realizzando il vuoto, si diventa “impeccabili per il mondo”. Il punto sta nel vivere la quotidianità attraverso il “lasciare andare”. Come scrisse nel XII secolo il maestro Engo Kokugon: “Lasciate andare, e anche le tegole e i sassi emettono luce; tenete stretto, e anche l’oro vero perde il suo colore”. Pensati per metterci faccia a faccia con la relatività di tutti i giorni, questi koan ci insegnano che le condizioni esterne devono essere sì affrontate e comprese, tenendo, però, ben presente che “nemmeno un granello di sabbia” è reale.   

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