Seconda presentazione del romanzo "Vittoria" a Roma. Nel giorno in cui Obama ha fatto blindare la Capitale, sono arrivate comunque più di sessanta persone, cui va un ringraziamento particolare. E c'era anche il mio editore Francesco Giubilei, il più giovane d'Italia. Un grazie particolare anche a lui. Siccome non c'è un video, racconto io quello che si è detto, perché merita una riflessione. Giuliano Compagno ha introdotto gli interventi, elogiando "Vittoria" per il racconto fatto con la "necessaria distanza" che fa restare il lettore "agganciato" al libro fino alla fine. Andrea Di Consoli ha a sua volta fatto un intervento molto bello e anche generoso verso "Vittoria". Di Consoli, autore del romanzo "La collera" sul fascista atipico Pasquale Benassia, ha detto che "Vittoria" è un libro doloroso, che con oggettività racconta rituali e situazioni di un'Italia di brava gente che non c'è più. Ha detto che nel romanzo c'è un crescendo: dalla placida tranquillità di una vita domestica persino un po' dolciastra al furore delle pagine finali. "Vittoria trova posto in una scacchiera a lei predestinata, accetta il suo destino, che è stato quello di accarezzare le ferite dei padri...".
Silvia Giralucci ha detto che un romanzo come "Vittoria" era necessario perché il racconto da destra di quegli anni è utile a far cadere i pregiudizi: "Dall'esterno vi vedono ancora come gli stragisti, gli squadristi, non c'è comprensione". Poi ha parlato del suo film-documentario "Sfiorando il muro" dicendo che ha cercato con quello di esplorare il modo in cui la destra ricorda le vittime e ha sottolineato i limiti del rito del Presente: "Le vittime vengono viste come simboli e non come persone". In "Vittoria", ha detto infine, si vede che i ragazzi erano diversi dai reduci, perché erano rivolti al futuro e non al passato.
Stefania Paternò ha detto che i fascisti non erano umiliati ma ridotti all'impotenza, che la lezione che ricava da quegli anni è quella della tolleranza. Ha parlato di quella guerra civile strisciante come "una farsa portata avanti sulla nostra pelle". "Per questo sono ancora molto arrabbiata - ha aggiunto - perché a un anno da Acca Larenzia si sapeva che ci sarebbe stato un altro morto e il partito non fece nulla per evitarlo. Io dico qui che quel morto fu forse addirittura cercato...".
Ed ecco quello che ho detto io: "Vittoria" è un esperimento, partire dal quotidiano per arrivare a spiegare la tragedia. Un'idea che viene anche dalla lettura di alcune pagine del romanzo di Gian Luca Belardi sugli anni Settanta, pagine in cui racconta che sta comprando con la mamma un paio di scarpe da ginnastica in un negozio e sente gli spari di Acca Larenzia e tutti fuggono, non sanno neanche da che cosa. Dunque il mio libro questo vuole essere: il mostruoso che fa irruzione nel quotidiano. E poi vuole essere un saluto, un omaggio, un congedo da un mondo irripetibile (il voler essere "diversamente italiani" dei missini) e che non c'è più, ma senza ideologizzare, senza recriminare. Ci hanno sfruttato? E' andata così. Noi abbiamo fatto quello che si doveva fare. Poi ho ricordato il commento a "Vittoria" dell'ex repubblichino Franco Grazioli che, dopo averlo letto, mi ha detto: "Serviva un racconto morbido su quegli anni, tu sei riuscita a farlo". Ma che cos'è la morbidezza? Ho chiesto. E lui: "Significa che noi potevamo portare la guerra dentro anche dopo, ma per voi non era necessario". Stessa cosa che mi ha detto Antonio Pennacchi: "Avete proseguito la guerra per i vostri padri, non era giusto". Ma "Vittoria" non deve stabilire se era giusto o sbagliato. E' un libro che fa parlare le cose, che descrive e non giudica. Poi ho ripreso il discorso di Silvia sul Presente, una cosa che mi sta a cuore: inquadrare i ragazzini in quel rito è un modo per isolarli e metter loro dinanzi un nemico che sfugge, che non si può definire con certezza. E' il modo più opportuno di coltivare la memoria, una memoria orgogliosamente separata? Quei morti erano persone prima di essere Caduti. Persone che prima c'erano e poi non ci sono state più. Persone che meritavano di vivere. (a.t.)
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