Di seguito uno stralcio del saggio di Luciano Lanna Enrico Berlinguer e la frattura del '77 che sarà pubblicato nel libro collettaneo in uscita ad aprile dal titolo Prospettiva Berlinguer. Il leader comunista a trent'anni dalla scomparsa (Safarà editore) curato da Ivan Buttignon (16 saggi di vari autori)
Luciano Lanna
Il Pci di
Berlinguer dopo essere riuscito a mobilitare milioni di militanti e
di persone per almeno un decennio, a metà degli anni Settanta percepisce sia il
fatto che la strada della mobilitazione economico-sociale non è percorribile in
quanto tale all’infinito sia che non è più possibile poter rappresentare sempre
e comunque umori ed esigenze d’opposizione. Ma invece di puntare in via
privilegiata a salvare e rinforzare il rapporto con i fermenti della società,
magari dentro un diverso paradigma di partecipazione e impegno, il Pci mostrò
di tendere ad assimilarsi al quadro politico-istituzionale di potere, lasciando
così che gli “esclusi” si avventurassero in ricerche diverse di nuova
rappresentanza o di nuove forme di mobilitazione.
È proprio nel
1977 che questa “frattura” diventa evidente in tutte le sue conseguenze. Da
questo punto di vista, il ’77 simboleggia in qualche modo il mutamento di
segno, “perché è a partire da quel momento che prende forma il fenomeno della
secessione rispetto al modo come si era pensato e sistemato il dopoguerra”[1].
In un suo studio sul movimento del Settantasette, Carmine Fotia sostiene che
proprio riguardo al Pci di Berlinguer, il ’77 è l’anno di svolta di un intero
decennio: “Al culmine della sua forza, il Pci la gioca tutta dentro la
dimensione politico-istituzionale, cercando di aprirsi un varco verso il
governo attraverso la politica delle ‘astensioni’ e dell’intesa con la Dc. Non
si comprende la frattura tra il Pci e il movimento giovanile se non si coglie
la complessità di questo passaggio: il ’77 non è, allora, la questione del
rapporto tra partito e movimento; o meglio, lo è ma come metafora di un’intera
politica, di una strategia lungamente preparata (quella del compromesso
storico) che s’invera in una linea (la politica dell’intesa con la Dc)”[2].
Si potrebbe
allora sostenere che la strategia del compromesso storico e dell’unità
nazionale condusse all’inizio di quell’anno al logoramento politico della
prospettiva di sinistra rappresentata sino ad allora dal Pci. Più che altro,
l’assillo principale di Botteghe Oscure era quello di far uscire la situazione
politica dallo stallo dell’astensione concessa al governo guidato da Andreotti.
Proprio Berlinguer, su Rinascita del 10 dicembre 1976, aveva infatti
avvertito un “vuoto di linea politica della Dc” e in esso il rischio “che
crescano umori, tendenze, manovre di destra, in qualche caso avventuristiche”.
E dunque, sollecitava a “far avanzare il quadro politico, isolando tutti coloro
che tentano di scatenare la controffensiva di destra”. Tuttavia, concludeva
Berlinguer, non si poteva in alcun modo far cadere il governo e contribuire a
determinare “un salto nel buio”.
Dal punto di
vista strategico e di contenuti politici, la risposta del Pci venne riassunta
attraverso un termine preciso, “austerità”, diventato poi lo slogan e il
programma lanciato in un convegno organizzato dalla sezione culturale del Pci
al teatro Eliseo di Roma, proprio del gennaio 1977. Una linea politica ovviamente in contrasto
totale con la domanda che saliva negli stessi giorni dalle nuove generazioni e
dal movimento di contestazione studentesco e che, per il Pci berlingueriano,
veniva intesa come un aspetto di rigore connesso al contemporaneo rinnovamento
politico. Non si trattava cioè “solo di pagare tasse e di fare più sacrifici,
ma anche, nel contempo, di lottare per una trasformazione dell’assetto di
questa società”[3].
(...) Salari e liquidazioni vennero tagliati per 800 miliardi, l’aumento
dell’Iva e dell’imposta di fabbricazione dei prodotti petroliferi fornirono i
mille e quattrocento miliardi di lire necessari a fiscalizzare gli oneri delle
imprese. E in qualche modo i comunisti si assunsero in prima persona il peso
politico di queste misure. Il politologo Giorgio Galli, già il 19 ottobre del
’76, si interrogava sulla tenuta di una simile politica: “È realistico questo disegno del quale si fa
interprete Andreotti? A me pare di no, nonostante l’attuale acquiescenza della
sinistra. I 14 milioni di italiani che vivono bene o discretamente non
intendono ridurre il loro livello di vita e non vedo perché dovrebbero farlo i
27 milioni che vivono mediocremente e i 14 milioni di emarginati…”[6].
Mentre infatti
il governo Andreotti governa sul tasto dell’austerità, cominciano a esprimersi
le prime manifestazioni di insofferenza, soprattutto tra i giovani delle grandi
città. Nascono i circoli del proletariato giovanile che praticano autoriduzioni
nei cinema e nei teatri in nome del diritto alla vita, emergono gli indiani
metropolitani che contestano la prima della Scala il 7 dicembre 1976. E sin
dall’inizio il Pci di Berlinguer viene visto come un soggetto avversario, come
il “nemico”. Non a caso giovedì 10 febbraio gli occupanti dell’università di
Roma prendono di mira un giornalista dell’Unità, Duccio Trombadori, e
gli riservano un vero e proprio “processo politico” pubblico. Definito un
“provocatore”, viene a lungo fischiato dagli indiani metropolitani, poi
condannato ed espulso in malo modo dall’università.
Giovedì 17
febbraio 1977, ultimo giorno di
Carnevale, fu comunque la giornata che fece esplodere tutte le
contraddizioni. Fu infatti il giorno in cui nella contrapposizione frontale tra
Pci (e sindacato) e movimentismo studentesco (ma non solo) si consumava la
frattura irreparabile.
(...) Luciano Lama arriva all’ateneo scortato da un nutrito servizio
d’ordine del Pci con il chiaro proposito di dimostrare l’egemonia della
sinistra storica sulle nuove frange contestatrici. In mattinata un’altra parte
del servizio d’ordine si era premunita cancellando le scritte ironiche contro
il leader della Cgil (“I Lama stanno nel Tibet”, “Lama non l’ama nessuno”) e
occupando il viale d’accesso al piazzale della Minerva. La situazione diventa
immediatamente tesa, prima gli studenti scelgono di disturbare il comizio con
sfottò e slogan ironici, poi tutto degenera. E scoppiano gli incidenti. Nella
confusione generale Lama fu costretto a scendere dal palco e a scappare
scortato dal servizio d’ordine.
Che non si
trattasse soltanto di una goliardica rivolta generazionale, ma di qualcosa di
più profondo lo attesta in una sua analisi postuma uno dei contestatori, un ex
indiano metropolitano: “Nelle motivazioni profonde dell’ala creativa, la più
significativa di quell’evento, si profilavano in realtà i nuovi orizzonti della
società italiana che avevano le loro radici nella storia del paese. Non a caso
l’accusa più contestata a quei giovani fu quella di imitare le componenti
irrazional-vitaliste dell’avanguardia futurista. Quel movimento era rivolto
innanzitutto contro le involuzioni della politica e soprattutto contro i
detriti gruppuscolar-marxisti del ’68. E nessuna nuova nomenklatura ha mai
potuto identificarsi con esso. Pacifisti, ambientalisti, femministe e radicali
sono tutte esperienze che non hanno il tratto caratteristico del vero
Settantasette: il miglior Nietzsche contro il peggior Marx”[8].
Non a caso, la
prima reazione del Pci alle manifestazioni della nuova contestazione giovanile
passò dalla condanna aperta all’incomprensione totale.
(...) D’altro canto,
la discussione nel Pci sulla natura del movimento fu più che altro di censura e
disapprovazione. Ci sono accenni a una discussione su Rinascita e su La
Città Futura, il settimanale della Fgci diretto da Ferdinando Adornato, ma
generalmente passò la metafora del “diciannovismo” e del “sovversivismo piccolo
borghese” delle masse giovanili nella quale era incubato il fascismo delle
origini. La Fgci, disse il segretario nazionale Massimo D’Alema, doveva “stare
nel movimento” ma per combatterne le componenti squadristiche, “come fosse
possibile – rileva Fotia – starci, dopo che il servizio d’ordine del Pci aveva
sgomberato le facoltà occupate, è tutto da capire”[9].
(...) A marzo, a
Bologna, l’opposizione tra Movimento e Pci diventa simbolicamente ancora più
evidente. L’11 marzo restava ucciso uno studente, Francesco Lo Russo, colpito
da un proiettile mentre era in fuga
dall’università che veniva sgombrata dalle forze dell’ordine. Il Pci decide di
far schierare il suo servizio d’ordine a piazza Maggiore per cercare di tenere
sotto controllo la tensione e con l’obiettivo di dare alla città un messaggio
inequivocabile: il movimento è composto da provocatori e fascisti. Il sindaco
comunista Renato Zangheri, dopo un lungo colloquio con il questore, afferma:
“Siete in guerra e non si può criticare chi è in guerra”[11].
All’alba della domenica 13 marzo circa 3mila poliziotti e carabinieri con
l’ausilio dei mezzi blindati rimuovono le barricate e sgombrano l’università
occupata. Il 16 marzo Piazza Maggiore è colma di manifestanti del Pci che
ascoltano Zangheri e rifiutano l’ingresso in piazza del movimento. E a
settembre, l’ultimo giorno del convegno del movimento contro la repressione, un
grande corteo, un “serpentone”, attraverserà l’intero centro di Bologna proprio
sfottendo il Pci e in sindaco comunista al grido di “Zangherì Zangherà
zangheriamo la città”, dopo essere passato davanti alle carceri nelle quali
erano reclusi, per i fatti di marzo, numerosi militanti del movimento
bolognese.
D’altronde non
c’era compatibilità possibile tra chi aveva scelto lo slogan dell’austerità e
l’asse con la Dc e chi si proponeva all’insegna della rivolta ribellistica e
antipartitica del “riprendiamoci la vita”.
È soprattutto sul piano dell’immaginario che avviene la dissociazione
definitiva tra il Pci e l’area vasta giovanile di stampo libertario che,
paradossalmente, in una inevitabile frammentazione disorganica si dividerà e si
riaggregherà paradossalmente tra il riferimento al quotidiano Lotta Continua, le suggestioni creative
degli indiani metropolitani, quelle dell’Autonomia operaia, la sintonia con le
battaglie dei radicali di Pannella, alcune aperture dei socialisti di Craxi e
Martelli ma anche, come annoterà Pasquale Serra, alcuni esperimenti minoritari,
ma significativi, che si muovevano addirittura nel movimentismo giovanile a
destra[12].
Incapace di
interloquire, magari con altri mezzi e modalità nuove che non fossero quelli
della politica istituzionale, con i nuovi fermenti della società, è come se il
Pci si fosse convinto che l’apertura eccessiva ai bisogni sociali e alla
protesta giovanile facesse correre troppi rischi rispetto alle responsabilità
strategiche, tanto che il partito assume una posizione legalitaria e di
élitismo liberale, posizione quest’ultima che opta sempre per “un sistema in
cui al popolo è consentito votare, ma per il potere reale è convogliato lontano
da esso verso una élite più liberale e illuminata”[13].
È la via del berlinguerismo che, puntando più alla responsabilità
politico-istituzionale che alla sintonia con i movimenti, sacrifica e
marginalizza una vasta parte del potenziale di rinnovamento presente nella società
italiana, in particolare i bisogni delle giovani generazioni
post-sessantottine.
[1] P. Serra, Individualismo e
populismo La destra nella crisi italiana dell’ultimo ventennio, cit., p.
29.
[2] C. Fotia, “Il Pci contro i
giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, Manifesto libri, Roma,
1997, p. 77.
[3] In C. Fotia, “Il Pci contro i
giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, cit., p. pp. 77-78.
[4] G. Amendola, Coerenza e
severità. In “Politica ed economia”, n. 4, luglio-agosto 1976, pp. 3-12.
[5] M. Pirani, “E Amendola dice:
sacrificatevi”, in “la Repubblica”, 28 settembre 1976.
[6] In G. Galli, Opinioni sul Pci,
cit, p. 150.
[7] M. Grispigni, Il
Settantasette, il Saggiatore, Milano, 1997, p. 29.
[8] M. Camiletti, Il canto acerbo
del ’77, in “Diorama letterario”, n. 207, ottobre 1997.
[9] C. Fotia, “Il Pci contro i
giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, cit., p. 79.
[10] Cfr. G. Dell’Arti, “I giorni
delle P38” in 1977-Dieci anni di Repubblica, p. 5.
[11] In M. Grispigni, Il
Settantasette, cit., pp. 42-43.
[12] P. Serra, Individualismo e
populismo La destra nella crisi italiana dell’ultimo ventennio, cit., pp.
36-38.
[13] M. Canovan, “Il populismo come
l’ombra della democrazia”, in Europa Europe, n. 2, 1993, edizioni Dedalo, p.
50.
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