Luciano
Lanna
«Quante sgridate mi sono presa per il mio caro, dolcissimo
Hank tanti anni fa…» scriveva a suo tempo la compianta americanista Fernanda
Pivano rievocando la sua passione – del tutto incompresa in Italia – per
Charles “Hank” Bukowski, lo scrittore scomparso vent’anni fa, il 9 marzo del
1994. E questo – sottolineava – avveniva ancora nel 1978, quindici anni dopo
che il Berkeley Barb e altri giornali
dell’underground intellettuale Usa le avevano mandato ritagli con le pagine bukowskiane
che sembravano troppo farneticanti per essere vere, in un ritratto della
gioventù che però stava esplodendo… Quelle pagine farneticanti le aveva
raccolte Lawrence Ferlinghetti nella sua libreria City Lights e le aveva spedite
alla Pivano come se fossero l’argomento più naturale e importante di quegli
anni. E forse, in quel 1972, lo erano: «Individualistiche e dissacratrici e anarcoidi, disimpegnate
in qualsiasi direzione, intrise di disgusto per la realtà del mondo….».
D’altronde,
quando in Italia la Feltrinelli aveva pubblicato la prima traduzione di un
romanzo di Bukowski, se ne erano accorti davvero in pochi. E quei pochi lo
avevano forse confuso con un altro scrittore, quasi omonimo: il dissidente
russo Vladimir Bukovski. L’identità fonetica e la quasi identità grafica – una
sola “w” di differenza – avevano creato un equivoco e una confusione che forse,
nonostante tutto, sottendevano pure qualche affinità. Anche Henry Charles
Bukowski junior – nato Heinrich Karl Bukowski, da padre tedesco – era in fondo
un dissidente. Viveva negli Stati Uniti, ma nessuno come lui è stato impietoso
con il sogno americano e con tutti i suoi luoghi comuni. Naturale che
risultasse indigeribile a un certo benpensantismo intellettuale.
Come
dimostra un episodio riferito dall’americanista Beniamino Placido. «Ho
incontrato sul treno Goffredo Fofi e mi sono preso una bella lavata di testa», confessava. «Bella roba,
tu con il tuo Bukowski”, gli fa infatti Fofi. «Perché, non va bene?» replica Placido,
preoccupato di quello che potessero pensare di lui i lettori delle riviste di
Fofi… «Lo sai come
lo leggono i ragazzi? Come la legittimazione letteraria di ogni disgregazione,
di ogni dissociazione, di ogni disgusto esistenziale”, lo rimprovera il
critico…
Che si
trattasse di Solgenitsin o di Bukowski, d’altronde, i dissidenti e i
“maledetti” non godevano del favore del
mainstream negli anni Settanta. «Il Bukowski di Los Angeles – spiegava proprio Placido – è un
cronista, disgustato e critico, della vita quotidiana. Come tutti i grandi
dissidenti russi. Non a caso il primo libro che abbiamo conosciuto e apprezzato
di Solgenitsin si intitolava Una giornata
di Ivan Denisovic. E che giornata. Che vita. Che grigiore. Che quallore…». Lo stesso squallore,
aggiungeva Placido, «delle Los Angeles, delle Chicago, delle New York che Charles
Bukowski conosce e ci fa conoscere…». Ancora nel diario dei suoi ultimi due anni di vita,
Bukowski non riuscirà a trattenersi dall’esprimere tutto il suo disprezzo per
lo squallore della quotidianità di un’esistenza condotta sull’onda del
consumismo e dell’utilitarismo: «La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente
vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano
via… Dopo un po’ dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che sia gli
altri a pensare per loro. Hanno il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti,
parlano male, camminano male…».
Fortunatamente,
in quegli anni Settanta in Italia Bukowski era stato scoperto e promosso da un
editor non conformista come Gigi Buffarini Guidi – suo nonno fu il ministro di
Mussolini finito ucciso nei tragici giorni del ’45 – che lo propose al suo
editore, il socialista libertario Massimo Pini, per le edizioni SugarCo. E
nelle librerie italiane comparvero quindi
capolavori come il romanzo Factotum e
i racconti A Sud di nessun Nord. E
poi l’operazione procede fino al 1980 e 1981, quando la SugarCo dà ancora retta
a Buffarini Guidi e fece uscire Donne
e Post Office, e Compagno di sbronze, e Storie
di una vita sepolta…
Per
restare in Italia, ma negli anni Duemila, un bukowskiano dichiarato, il narratore
Gino Armuzzi, classe 1960, ha dedicato un esilarante romanzo di formazione, Sognavo di essere Bukowski (Sperling
& Kupfer) proprio allo scrittore statunitense. Nel
libro di Armuzzi – uscito nel 2004, dieci anni fa – si raccontava però la
Milano degli anni Ottanta vissuta da un personaggio d’eccezione, il Guzzi,
sempre un bocconiano doc che in seguito a una sorta di crisi
ideologico-esistenziale passa dallo status di figlio di papà a studente fuori
corso, da studente fuori corso a irregolare esistenziale, e poi più giù ancora,
fino a vero border line, il tutto tra
colonne sonore di prima e anche di seconda scelta, derive esistenziali, feste a
imbuco e concerti. Erano i postideologici anni Ottanta e tra Sex Pistols e
Duran Duran, Rambo e Conan, punk e paninari, ermerge il protagonista di una
storia che voleva «vivere come Miller, morire come Mishima e sognava di essere
Bukowski…». Un giorno c’è la scoperta di Bukowski e da allora cambia tutto:
«Cominciai ad alternare la giacca e cravatta ad abiti più informali. Alle
Timberland e alle Church sostituii prima le più alternative Clark, poi le truvide
Doc Martens...». E agli amici che lo sfottevano – «che ti succede, Guzzi, non è
che diventi comunista?» – lui rispondeva rassicurando: «Chi, io? Ma sei scemo?
Piuttosto milanista che comunista». E poi tornava in libreria a cercare i libri
di Bukowski e degli altri maledetti. E l’elenco è davvero significativo della
trasformazione della sensibilità culturale che irruppe proprio negli anni
Ottanta: «C’erano gli alcolizzati come Kerouac, gli alcolizzati come Bukowski,
i suicidi come Hemingway... gli oppiomani come Quincey e Baudelaire, i fascisti
come Evola e Céline, i nazisti e suicidi come Mishima, quelli come la
Rochelle... i pazzi come Nietzsche…».
Se la
fama di Bukowski a metà dei Settanta sarà soprattutto europea, negli States
raggiungerà la meritata popolarità soltanto molto tempo dopo e soprattutto
grazie alla traduzione cinematografica delle sue opere. E buona parte del
merito sarà ancora di un italiano, Luciano Vincenzoni, famoso sceneggiatore –
autore di Giù la testa, Il buono il brutto e il cattivo per
Sergio Leone, La grande guerra per
Monicelli, Il Conte Tacchia per Sergio
Corbucci – oltre che appassionato bukowskiano (sulla scorta della sua antica passione
per i libri di Céline). È stato lo stesso Vincenzoni a rivendicare, nel suo Pane e cinema (Gremese Editore), il
fatto di essere stato il primo a parlare dello scrittore negli ambienti
hollywoodiani e a far scoppiare nella mecca del cinema una vera e propria
bukowskimania: «Fu una scoperta, nessuno di loro conosceva questo autore
underground…».
Un rapporto,
quello di Hollywood per Bukowski, che d’altronde non era ricambiato: «Al cinema
ci vado poco, il mio tempo lo so ammazzare per conto mio e non ho bisogno di
aiuto». E ancora: «Il cinema fa schifo, non riusciranno mai a fare Céline…».
Eppure il successo di Bukowski sarà suggellato nel 1981 proprio sul grande
schermo. Il film è Storie di ordinaria
follia (dal nome della celeberrima raccolta di racconti) ed è stato diretto
da un altro italiano, il regista Marco Ferreri. Accanto a una splendida Ornella
Muti, c’era Ben Gazzarra a interpretare Chinaski-Bukowski. Ma la grande
popolarità negli Stati Uniti arriva, però, solo nel 1987 con il film Barfly, adattamento cinematografico di
un racconto dei suoi «dieci anni da ubriaco». Bukowski, comunque, non fece mai
nulla per farsi apprezzare dagli americani. I suoi conclamati maestri erano autori
europei come Céline, Dostoevskji, Hamsun…. O come John Fante, americano sì ma
di origine italiana. Lui, che lo venerava, lo definiva «il nostro mentore, il
nostro Dio…”.
Una
volta, prima di lasciare questa vita nel 1994 a 74 anni, intervistato da
Fernanda Pivano, Hank si lasciò andare a un esplicito canto d’amore per il
Vecchio Continente: «Credo che l’Europa sia di
un paio di secoli in anticipo sugli Stati Uniti. Credo che la gente sia più
percettiva, sappia di più, credo che la cultura sia stata lì più a lungo. Gli
europei afferrano la realtà più in fretta degli americani…».
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