Luciano Lanna
Noi, si sa, siamo gucciniani impenitenti oltre che fratelli minori di
chi ha fatto il Sessantotto o si è entusiasmato per la Chiesa conciliare, e quindi
non ci lasciamo sfuggire nessuna pubblicazione, anche minima, dedicata al
Maestrone di Pàvana. Ecco perché non c’è passato inosservato il recente Il Vangelo secondo Francesco. Guccini sulle
tracce della fede (Fuoco Edizioni, pp. 76, euro 9,00), un saggio scritto
dal giornalista Gian Carlo Padula e dedicato al tema del rapporto tra l’opera
gucciniana, il sacro e il cristianesimo. Un libro prefato da un collega di
Guccini apparentemente molto lontano da lui, Aldo Caponi in arte Don Backy, il
quale invece annota: “Mai avrei pensato di potermi scoprire in realtà
somigliante a Guccini, anche dal punto di vista caratteriale. Un artista che
fino alla lettura di questo saggio pensavo appartenesse a ‘parrocchie’ (spesso
tiratoci per la giacca, come capita alle persone valide…) troppo
schematicamente definite da un punto di vista politico e sono lieto di
constatare che non è così…”. Ulteriori conferme non mancano. “Nonostante fosse giudicato un ribelle –
confessa Antonio Prandi, zio molto cattolico di Guccini – io ho sempre ritenuto
mio nipote penetrato dal cristianesimo, intriso di certi valori magari senza
averne l’etichetta. D’altra parte, lui stesso sovente mi ha detto, soprattutto
nei primi tempi del suo impegno come cantautore, che era stupito di come
all’inizio solo negli ambienti di Chiesa trovasse consenso…”.
E Guccini stesso, come si apprende sfogliando il libro, ha espresso in più di una
intervista la sua particolare religiosità: “Il senso religioso della vita può
essere l’avere una morale che hai assunto sin da quando eri bambino. Poi si è
modificato con certe conoscenze, con certi incontri e certe cose, ma grosso
modo resta quello. E quindi anche per me, che mi dico laico, il senso religioso
della vita è attenersi alla morale e poi pensare che esiste la parte misteriosa
della vita che non può essere schiacciata dal positivismo, dallo scientismo,
come poi i secoli hanno sempre dimostrato…”. Una religiosità tutta sua, forse,
ma reale: “Ho una mia religiosità naturale, mi piace moltissimo vedere il
passaggio delle stagioni che mi riporta all’infanzia, vedere come da gennaio in
avanti la natura spinga per uscire. Le gemme che escono, vedere i primi fiori
che cominciano a uscire a fine gennaio o ai primi di febbraio. È bello vedere
come tutto ritorna, che va avanti, aspettare la bellezza dei fiori sugli
alberi, poi i frutti verdi e acerbi…”.
A un certo punto della sua autobiografia Non so che viso avesse. La storia della mia vita (Mondadori, pp. 225, € 18,00) c’è del
resto un episodio che dà la un po’ chiave di lettura di tutto. Un amico
modenese di Guccini in un opuscolo sull’epopea beat di quei ragazzi emiliani
racconta di due giovani capelloni degli anni ’60 che si chiedono, l’un l’altro
nel loro dialetto: «Et un bit tè?», «No, mè a sun un hippy» (“Sei un beat, tu?”.
“No, sono un hippy”) . Commenta Guccini: «C’era in questo breve dialogo, in questo
lampo di genio, tutta la saggezza contadina di base di noi giovani d’allora che
ci sognavano rivoluzionari ma che in fondo erano brava gente, provenienti da
famiglie piccolo-borghesi, sognanti di fare qualcosa di nuovo ma radicati bene,
profondamente, dentro quelle radici». Per cui, tanto per sgombrare il campo dagli equivoci,
lasciamo parlare direttamente Francesco: «Mi piace definirmi – precisa – appartenente
alla famiglia dei cantastorie, dai quali ho ereditato la tecnica nella
costruzione dei versi. A lungo
sono stato considerato il cantautore politicizzato per eccellenza, ma è una
specie di equivoco...». Sì, proprio un equivoco, nel quale non è però mai
caduto chi negli anni ha ascoltato davvero le sue canzoni o letto i suoi libri.
Si pensi a Radici, l’album del 1972
che è un po’ il lavoro il quale ha scoperchiato il suo pensiero profondo: «Qui
il passato – spiega Guccini – come l’appartenenza a una storia che ti fa
comunque da background culturale sembra la garanzia dell’oggi senza soluzione
di continuità». In quel clima generale – l’Italia degli anni di piombo e delle
ideologie totalizzanti, dei manicheismi politici espressi in forma di banali (e
spesso tragici) slogan – rivendicare esplicitamente l’appartenenza a una
tradizione popolare, collocarsi in continuità rispetto ai propri avi,
recuperare modelli ritenuti superati come le ballate medievali era senz’altro
una scelta coraggiosa e non conformista. «È probabilmente questo – ha spiegato
l’italianista Alberto Bertoni – il motivo profondo della sua durata nel tempo e
del gradimento intergenerazionale di cui gode: egli infatti ha saputo sempre
evitare di soffermarsi sulla parte effimera dell’esistenza privata e sociale,
interrogando piuttosto “il solito silenzio senza fine” che abita ognuno di
noi». Sì, perché Francesco Guccini è
l’uomo che lui stesso ha cantato: «Io, figlio di una casalinga e di un
impiegato / cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna / che sapevano Dante a
memoria e improvvisavano di poesia / io, tirato su a castagne e a erba spagna /
io, sempre un momento fa campagnolo inurbato / due soldi d'elementari e uno di
università...». Settantatre anni, nato a Modena, ma cresciuto a Pàvana nei suoi
primi anni di vita, poi di nuovo modenese, quindi bolognese, e adesso di nuovo
pavanese, Guccini è soprattutto un raccontatore di storie. Sua mamma, Elsa
Prandi, scomparsa a 95 anni, quando qualcuno le chiedeva se era felice d’avere
un figlio cantautore rispondeva sempre: «Be’, cosa vuole mai, noi avremmo
preferito che fosse diventato professore di storia...». Professore o meno,
però, tutta la sua vita è stata quella di raccontare storie, prima con le
canzoni poi con i romanzi e i racconti. «Raccontare se stesso – annota ancora
Bertoni – e raccontare le persone, o raccontare se stesso attraverso le
persone. La verità, per Guccini, deve essere cercata nei particolari delle
singole vite e delle singole vicende, mai negli universali e negli slogan delle
parole d'ordine collettive, perché le nostre, come la sua, sono in tutto e per
tutto «storie misteriose scolpite nei sassi...». All’inizio c'è il mulino a
Pàvana della famiglia Guccini, mugnai
sin dal 1600, e la scoperta dei fumetti e della lettura: «Ogni volta che
potevo, leggevo: anzi, fin dal primo libro che ho letto prima di andare a scuola, Pinocchio,
la mia gioia più grande era leggere e il mio terrore più grande era rimanere
senza leggere». E dal leggere allo scrivere il passo non è poi stato lungo...
Quindi gli avi, i nonni, le nonne, il prozio
Enrico – l’Amerigo della canzone – e i bisnonni, il bosco, il fiume, la
montagna. Poi Modena, odiata e amata, piccola città bastardo posto. Quindi
Bologna, l’eletta, in via Paolo Fabbri. E poi gli altri luoghi e i loro
aneddoti: le osterie, le balere, dalla via Emilia al West, l'amore per le chitarre
e per l'ottava rima. Quelle osterie, soprattutto, dove non c'è ideologia ma
Italia condivisa: «Quei clienti di variopinta idea, come quel tale, l'unico
proprietario liberale mai conosciuto che il 1° maggio voleva andare a lavorare
per protesta. O un altro che quando era un po’ su, estraeva un portafoglio e
sussurrava. “Sa chi salverebbe ancora l’Italia?”, e mostrava la foto di “Lui,
lui, quell’altro, insomma, Benito…”».
Quindi, nel 1969, un insolito religioso si presenta a Francesco. È un
frate domenicano, padre Michele Casali, che prima di prendere i voti faceva
l’impresario, e gli propone di aprire un luogo d’incontro e di aggregazione:
l’Osteria delle Dame, proprio nel cuore di Bologna. “Il locale – leggiamo ne Il Vangelo secondo Francesco – venne
inaugurato il 31 ottobre 1970 e sarà il localino dove oltre Guccini per anni si
esibiranno su un palchetto tante giovani speranze artistiche e creative…
Passerà il tempo e il 15 aprile del 1997 sempre padre Michele Casati invita
ancora l’amico Francesco a un appuntamento religioso presso la sede dei frati
domenicani di Bologna: “La domenica nella mia chiesa – confessa il padre – si
canta un inno così brutto che rovina l’intensità del rito, ci sono invece
canzoni di Guccini che sono molto più adatte e spirituali…”.
Un vero irregolare da subito, il Francesco. Pochi sanno che nel 1956, molto
colpito dalla repressione sovietica della rivolta ungherese, un Guccini
sedicenne insieme ai suoi più stretti amici fonda a Bologna un “movimento laico
indipendente”, presieduto dal futuro giurista Gladio Gemma, ispirato a
posizioni laiche e non comuniste e ospitato nella sede del moderato Psdi. Del
resto, Guccini è stato l’unico, nel 1969, a dedicare una canzone alla Primavera
di Praga. «Io non sono mai stato – disse a suo tempo a Edmondo
Berselli – un estremista, non è nella mia cultura. E neanche comunista, perché
il Pci allora era il partito dell’Urss, figurarsi...».
Il primo vero e proprio concerto di Francesco d’altronde
fu, nel dicembre del ’68, alla Cittadella d’Assisi, organizzato da ambienti
cattolici: «Quelli – ha ammesso Guccini
– che avevano fatto trasmettere a Radio
Vaticana Dio è morto, allora censurata
dalla Rai. Tirava aria di ’68, erano i tempi della Messa beat o qualcosa di
simile, ero abbastanza giovane e curioso... Andai ad Assisi in pullman, con un
gruppo di bolognesi». E proprio quella sua canzone, scritta nel 1965 e incisa
dai Nomadi, è un simbolo degli anni Sessanta. La Rai, di fronte a un brano che
citava Nietzsche nel titolo e si ispirava all’Urlo di
Allen Ginsberg, fece come con le canzoni di Fabrizio De André: censura. Nel
frattempo, però, la canzone si avviava a diventare un inno della giovane generazione,
appassionando tutti: i cattolici, gli irregolari di destra, i contestatori di
sinistra. Lo ha raccontato lo stesso Guccini sulla rivista cattolica Vita
e Pensiero nell’articolo Dio (non) è morto, la ricerca continua:
«Avevo venticinque anni – ha scritto – e
stavo studiando all’università di Bologna, i primi sit-in e il ’68 erano
alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale».
Alla fine
degli anni Novanta Guccini si esibirà ancora in un appuntamento cattolico, a
Carpi, insieme all’amico cantautore cristiano Claudio Chieffo (autore di popolarissime
e belle canzoni che si cantano in chiesa
come La ballata dell’uomo vecchio, Io non sono degno, Perdonami mio signore, Il
seme…) scomparso poi a soli 62 anni nel 2007, il quale dedicò una canzone a
Guccini, immaginando che il Mistero si rivolga a lui che è in drammatica e
sincera ricerca delle cose e della sua stessa vita. È l’invito a stare
veramente di fronte al Mistero a non fuggire nella distrazione, a non chiudersi
all’ascolto della Sua voce, a guardare a tutta la realtà come segno della Sua
presenza. Si intitola Canzone per
Francesco: “Quando sentirai la Mia voce / non fuggire troppo lontano /
anche se il tuo passo è veloce / più veloce è la mia mano / Da solo te ne vai e
non pensi al ritorno / ti trascini la notte / e ti nascondi il giorno…”.
È il 22 dicembre 2006, e al Tg2, Guccini si pronuncia senza tema di
equivoci: “Molti pensano che dopo la morte finisce tutto io invece sento dentro
di me una speranza…”. Non a caso questa certezza emergeva anche dal testo della
canzone con cui il Maestrone ha aperto tutti i suoi concerti, Canzone per un’amica, dedicata a una
ragazza rimasta uccisa giovane in un incidente stradale: “… voglio però
ricordarti com’eri / pensare che ancora vivi / voglio pensare che ancora mi
ascolti / che come allora sorridi / pensare che ancora vivi…”.
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