giovedì 19 dicembre 2013

Francesco Guccini oltre gli stereotipi, il ribelle amato dai cristiani


Luciano Lanna

Noi, si sa, siamo gucciniani impenitenti oltre che fratelli minori di chi ha fatto il Sessantotto o si è entusiasmato per la Chiesa conciliare, e quindi non ci lasciamo sfuggire nessuna pubblicazione, anche minima, dedicata al Maestrone di Pàvana. Ecco perché non c’è passato inosservato il recente Il Vangelo secondo Francesco. Guccini sulle tracce della fede (Fuoco Edizioni, pp. 76, euro 9,00), un saggio scritto dal giornalista Gian Carlo Padula e dedicato al tema del rapporto tra l’opera gucciniana, il sacro e il cristianesimo. Un libro prefato da un collega di Guccini apparentemente molto lontano da lui, Aldo Caponi in arte Don Backy, il quale invece annota: “Mai avrei pensato di potermi scoprire in realtà somigliante a Guccini, anche dal punto di vista caratteriale. Un artista che fino alla lettura di questo saggio pensavo appartenesse a ‘parrocchie’ (spesso tiratoci per la giacca, come capita alle persone valide…) troppo schematicamente definite da un punto di vista politico e sono lieto di constatare che non è così…”. Ulteriori conferme non mancano. “Nonostante fosse giudicato un ribelle – confessa Antonio Prandi, zio molto cattolico di Guccini – io ho sempre ritenuto mio nipote penetrato dal cristianesimo, intriso di certi valori magari senza averne l’etichetta. D’altra parte, lui stesso sovente mi ha detto, soprattutto nei primi tempi del suo impegno come cantautore, che era stupito di come all’inizio solo negli ambienti di Chiesa trovasse consenso…”.


E Guccini stesso, come si apprende sfogliando il libro, ha espresso in più di una intervista la sua particolare religiosità: “Il senso religioso della vita può essere l’avere una morale che hai assunto sin da quando eri bambino. Poi si è modificato con certe conoscenze, con certi incontri e certe cose, ma grosso modo resta quello. E quindi anche per me, che mi dico laico, il senso religioso della vita è attenersi alla morale e poi pensare che esiste la parte misteriosa della vita che non può essere schiacciata dal positivismo, dallo scientismo, come poi i secoli hanno sempre dimostrato…”. Una religiosità tutta sua, forse, ma reale: “Ho una mia religiosità naturale, mi piace moltissimo vedere il passaggio delle stagioni che mi riporta all’infanzia, vedere come da gennaio in avanti la natura spinga per uscire. Le gemme che escono, vedere i primi fiori che cominciano a uscire a fine gennaio o ai primi di febbraio. È bello vedere come tutto ritorna, che va avanti, aspettare la bellezza dei fiori sugli alberi, poi i frutti verdi e acerbi…”.


A un certo punto della sua autobiografia Non so che viso avesse. La storia della mia vita (Mondadori, pp. 225, € 18,00) c’è del resto un episodio che dà la un po’ chiave di lettura di tutto. Un amico modenese di Guccini in un opuscolo sull’epopea beat di quei ragazzi emiliani racconta di due giovani capelloni degli anni ’60 che si chiedono, l’un l’altro nel loro dialetto: «Et un bit tè?», «No, mè a sun un hippy» (“Sei un beat, tu?”. “No, sono un hippy”) . Commenta Guccini: «C’era in questo breve dialogo, in questo lampo di genio, tutta la saggezza contadina di base di noi giovani d’allora che ci sognavano rivoluzionari ma che in fondo erano brava gente, provenienti da famiglie piccolo-borghesi, sognanti di fare qualcosa di nuovo ma radicati bene, profondamente, dentro quelle radici». Per cui, tanto per sgombrare il campo dagli equivoci, lasciamo parlare direttamente Francesco: «Mi piace definirmi – precisa – appartenente alla famiglia dei cantastorie, dai quali ho ereditato la tecnica nella costruzione dei versi. A lungo sono stato considerato il cantautore politicizzato per eccellenza, ma è una specie di equivoco...». Sì, proprio un equivoco, nel quale non è però mai caduto chi negli anni ha ascoltato davvero le sue canzoni o letto i suoi libri. Si pensi a Radici, l’album del 1972 che è un po’ il lavoro il quale ha scoperchiato il suo pensiero profondo: «Qui il passato – spiega Guccini – come l’appartenenza a una storia che ti fa comunque da background culturale sembra la garanzia dell’oggi senza soluzione di continuità». In quel clima generale – l’Italia degli anni di piombo e delle ideologie totalizzanti, dei manicheismi politici espressi in forma di banali (e spesso tragici) slogan – rivendicare esplicitamente l’appartenenza a una tradizione popolare, collocarsi in continuità rispetto ai propri avi, recuperare modelli ritenuti superati come le ballate medievali era senz’altro una scelta coraggiosa e non conformista. «È probabilmente questo – ha spiegato l’italianista Alberto Bertoni – il motivo profondo della sua durata nel tempo e del gradimento intergenerazionale di cui gode: egli infatti ha saputo sempre evitare di soffermarsi sulla parte effimera dell’esistenza privata e sociale, interrogando piuttosto “il solito silenzio senza fine” che abita ognuno di noi». Sì, perché Francesco Guccini è l’uomo che lui stesso ha cantato: «Io, figlio di una casalinga e di un impiegato / cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna / che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia / io, tirato su a castagne e a erba spagna / io, sempre un momento fa campagnolo inurbato / due soldi d'elementari e uno di università...». Settantatre anni, nato a Modena, ma cresciuto a Pàvana nei suoi primi anni di vita, poi di nuovo modenese, quindi bolognese, e adesso di nuovo pavanese, Guccini è soprattutto un raccontatore di storie. Sua mamma, Elsa Prandi, scomparsa a 95 anni, quando qualcuno le chiedeva se era felice d’avere un figlio cantautore rispondeva sempre: «Be’, cosa vuole mai, noi avremmo preferito che fosse diventato professore di storia...». Professore o meno, però, tutta la sua vita è stata quella di raccontare storie, prima con le canzoni poi con i romanzi e i racconti. «Raccontare se stesso – annota ancora Bertoni – e raccontare le persone, o raccontare se stesso attraverso le persone. La verità, per Guccini, deve essere cercata nei particolari delle singole vite e delle singole vicende, mai negli universali e negli slogan delle parole d'ordine collettive, perché le nostre, come la sua, sono in tutto e per tutto «storie misteriose scolpite nei sassi...». All’inizio c'è il mulino a Pàvana della famiglia Guccini,  mugnai sin dal 1600, e la scoperta dei fumetti e della lettura: «Ogni volta che potevo, leggevo: anzi, fin dal primo libro che ho letto prima di andare a scuola, Pinocchio, la mia gioia più grande era leggere e il mio terrore più grande era rimanere senza leggere». E dal leggere allo scrivere il passo non è poi stato lungo... Quindi gli avi, i nonni, le nonne, il prozio Enrico – l’Amerigo della canzone – e i bisnonni, il bosco, il fiume, la montagna. Poi Modena, odiata e amata, piccola città bastardo posto. Quindi Bologna, l’eletta, in via Paolo Fabbri. E poi gli altri luoghi e i loro aneddoti: le osterie, le balere, dalla via Emilia al West, l'amore per le chitarre e per l'ottava rima. Quelle osterie, soprattutto, dove non c'è ideologia ma Italia condivisa: «Quei clienti di variopinta idea, come quel tale, l'unico proprietario liberale mai conosciuto che il 1° maggio voleva andare a lavorare per protesta. O un altro che quando era un po’ su, estraeva un portafoglio e sussurrava. “Sa chi salverebbe ancora l’Italia?”, e mostrava la foto di “Lui, lui, quell’altro, insomma, Benito…”».
Quindi, nel 1969, un insolito religioso si presenta a Francesco. È un frate domenicano, padre Michele Casali, che prima di prendere i voti faceva l’impresario, e gli propone di aprire un luogo d’incontro e di aggregazione: l’Osteria delle Dame, proprio nel cuore di Bologna. “Il locale – leggiamo ne Il Vangelo secondo Francesco – venne inaugurato il 31 ottobre 1970 e sarà il localino dove oltre Guccini per anni si esibiranno su un palchetto tante giovani speranze artistiche e creative… Passerà il tempo e il 15 aprile del 1997 sempre padre Michele Casati invita ancora l’amico Francesco a un appuntamento religioso presso la sede dei frati domenicani di Bologna: “La domenica nella mia chiesa – confessa il padre – si canta un inno così brutto che rovina l’intensità del rito, ci sono invece canzoni di Guccini che sono molto più adatte e spirituali…”.


Un vero irregolare da subito, il Francesco. Pochi sanno che nel 1956, molto colpito dalla repressione sovietica della rivolta ungherese, un Guccini sedicenne insieme ai suoi più stretti amici fonda a Bologna un “movimento laico indipendente”, presieduto dal futuro giurista Gladio Gemma, ispirato a posizioni laiche e non comuniste e ospitato nella sede del moderato Psdi. Del resto, Guccini è stato l’unico, nel 1969, a dedicare una canzone alla Primavera di Praga. «Io non sono mai stato – disse a suo tempo a Edmondo Berselli – un estremista, non è nella mia cultura. E neanche comunista, perché il Pci allora era il partito dell’Urss, figurarsi...».
Il primo vero e proprio concerto di Francesco d’altronde fu, nel dicembre del ’68, alla Cittadella d’Assisi, organizzato da ambienti cattolici: «Quelli – ha ammesso  Guccini – che  avevano fatto trasmettere a Radio Vaticana Dio è morto, allora censurata dalla Rai. Tirava aria di ’68, erano i tempi della Messa beat o qualcosa di simile, ero abbastanza giovane e curioso... Andai ad Assisi in pullman, con un gruppo di bolognesi». E proprio quella sua canzone, scritta nel 1965 e incisa dai Nomadi, è un simbolo degli anni Sessanta. La Rai, di fronte a un brano che citava Nietzsche nel titolo e si ispirava all’Urlo di Allen Ginsberg, fece come con le canzoni di Fabrizio De André: censura. Nel frattempo, però, la canzone si avviava a diventare un inno della giovane generazione, appassionando tutti: i cattolici, gli irregolari di destra, i contestatori di sinistra. Lo ha raccontato lo stesso Guccini sulla rivista cattolica Vita e Pensiero nell’articolo Dio (non) è morto, la ricerca continua: «Avevo venticinque anni – ha scritto – e  stavo studiando all’università di Bologna, i primi sit-in e il ’68 erano alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale».



Alla fine degli anni Novanta Guccini si esibirà ancora in un appuntamento cattolico, a Carpi, insieme all’amico cantautore cristiano Claudio Chieffo (autore di popolarissime e belle canzoni che si cantano in  chiesa come La ballata dell’uomo vecchio, Io non sono degno, Perdonami mio signore, Il seme…) scomparso poi a soli 62 anni nel 2007, il quale dedicò una canzone a Guccini, immaginando che il Mistero si rivolga a lui che è in drammatica e sincera ricerca delle cose e della sua stessa vita. È l’invito a stare veramente di fronte al Mistero a non fuggire nella distrazione, a non chiudersi all’ascolto della Sua voce, a guardare a tutta la realtà come segno della Sua presenza. Si intitola Canzone per Francesco: “Quando sentirai la Mia voce / non fuggire troppo lontano / anche se il tuo passo è veloce / più veloce è la mia mano / Da solo te ne vai e non pensi al ritorno / ti trascini la notte / e ti nascondi il giorno…”.


È il 22 dicembre 2006, e al Tg2, Guccini si pronuncia senza tema di equivoci: “Molti pensano che dopo la morte finisce tutto io invece sento dentro di me una speranza…”. Non a caso questa certezza emergeva anche dal testo della canzone con cui il Maestrone ha aperto tutti i suoi concerti, Canzone per un’amica, dedicata a una ragazza rimasta uccisa giovane in un incidente stradale: “… voglio però ricordarti com’eri / pensare che ancora vivi / voglio pensare che ancora mi ascolti / che come allora sorridi / pensare che ancora vivi…”.

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