Pier Paolo Segneri
Gli insegnanti sono i nuovi profeti disarmati? Con le mani in
alto vanno incontro al Potere dominante. Si sacrificano come fossero a Piazza
Tienanmen. Esagero? Forse. Intanto, come in una metafora, i carri armati
avanzano contro le loro mani nude dei docenti o contro i professori precari con
le buste della spesa semivuote… Ma forse, con l’aiuto delle famiglie e degli
studenti, i cingolati si fermeranno un attimo prima. Siamo in Italia. Qualcuno
potrebbe continuare a pensare che esagero. Forse. Purtroppo, una cosa è certa:
qui da noi, per anni, una mentalità chiusa e furbastra, stolta e vuota,
arrogante e becera, ha tentato di trasformare i professori in una categoria di
falliti, perduti, bistrattati, derisi, malpagati, quasi a rappresentare un
nuovo sottoproletariato urbano. E il messaggio che è passato ai giovani è
pressoché univoco: è inutile studiare, si perde tempo e basta, al massimo si
diventa professori, cioè dei falliti, meglio allora scegliere la strada corta,
il vicolo stretto, la via breve. E la crisi si avvita su se stessa.
Ovviamente, come in tutti i mestieri, come accade in tutte le
professioni, ci sono gli insegnanti bravi e quelli meno bravi, ci sono
professori in gamba e alcuni senza vocazione, ci sono persone che meritano e
persone che latitano, ci sono docenti validi e docenti che dovrebbero dedicarsi
ad altro, ci sono maestri e capre. Ma la funzione degli insegnanti resta
fondamentale. Anzi, è diventata nevralgica, cruciale, non più rinviabile. È questa
la frontiera di un Paese alla deriva e che voglia uscire dalla crisi. In altre
parole, i professori dovrebbero essere dei maestri. Sono dei maestri.
Andrebbero rispettati, ringraziati, applauditi per il lavoro che svolgono e che
portano avanti dalla mattina alle otto, con l’ingresso in aula per la prima ora
di lezione, a tarda sera, quando terminano di correggere i compiti in classe o
di preparare la lezione per il giorno dopo. Senza contare le riunioni, gli
incontri con le famiglie, le ore per il collegio dei docenti, il consiglio di
classe, l’aggiornamento, gli scrutini, il recupero dei debiti scolastici e chi
più ne ha più ne metta. L’elenco degli impegni lavorativi dei professori
sarebbe troppo lungo. Ma sono trattati come dei privilegiati, con tre mesi di
ferie, poche ore di lavoro settimanale, insomma: una pacchia! Invece, è
semplicemente falso. Quello che è vero, al contrario, è che senza un
riconoscimento sociale del ruolo svolto dai professori e senza il ripristino
dell’autorevolezza del ruolo di insegnante nel comune sentire, anche gli studenti
perdono la loro centralità nella Scuola e tutto si frammenta, si sgretola, si
disgrega. E il Paese affonda. Eppure, malgrado tutto, in questo lungo tempo di
crisi, il più importante impegno sociale e d’integrazione civile viene svolto
dai professori, dai dirigenti scolastici, da tutto il personale che lavora
nelle scuole come fosse una trincea. Senza plausi e senza onori. Per senso di
responsabilità. Insomma, per uscire dalla crisi è necessario entrare nel
futuro. E il futuro esiste soltanto se c’è memoria. E la Scuola è il luogo
principale dove la memoria coltiva il futuro. E mi riferisco innanzitutto al
futuro dell’essere umano, della persona, dell’individuo e dell’intera
collettività, dell’Italia e dell’Europa. Perlomeno, il futuro delle nostre
città. La Scuola è la nostra frontiera. Anche l’Università, ovviamente. Ma un
Potere cinico e fine a se stesso, affarista e ignorante, ha trasformato la
Scuola in un’appendice marginale della società affidandole un ruolo secondario
rispetto alla responsabilità della formazione di nuovi cittadini, consapevoli e
coscienti. Prima, molto prima, a segnare il percorso formativo dei ragazzi, ci
sono la televisione, il web, internet, la tecnologia, la burocrazia, i social network.
Ma tutte queste cose sono dei mezzi e non possono diventare il fine. Sono degli
strumenti e non devono diventare lo scopo della collettività. L’uscita dalla
crisi passa anche attraverso la cultura, l’arte, la ricerca, la scuola, l’università,
la bellezza. Invece, niente. I problemi della Scuola sono tantissimi, sono
sempre gli stessi e si aggravano ogni giorno di più. La burocrazia è
soffocante, i soldi sono pochi e le spese sono troppe, mancano gli strumenti
didattici, le aule sono mal ridotte, gli ingranaggi a volte non girano, la
struttura è bolsa e ingabbiata. E non basta: le mancanze e le responsabilità
sono diffuse e il sistema scolastico appare spesso inadeguato alle sfide del
futuro. Ciascuno dovrebbe impegnarsi a migliorare se stesso. È il compito che
ciascun docente dovrebbe assumersi. Il cambiamento parte dalla restituzione
sociale della funzione, dell’autorevolezza e dell’importanza dei professori.
Altrimenti, lo studente (il futuro) non è più il fine della scuola, ma diventa
soltanto un mezzo, uno strumento che serve a giustificare l’esistenza della
scuola e, dunque, il fine ultimo della scuola diventa quello di essere
autoreferenziale. Ne riparleremo ancora.
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