Luciano Lanna
“Se
attualmente c’è qualcuno, nella letteratura mondiale e non solo francese, che
pensa questa sorta di enorme mutazione che tutti noi sentiamo essere in corso
senza avere i mezzi di analizzarla, e che non concerne soltanto la civiltà occidentale
ma lo status dell’umanità, questi è lui…”. Il riferimento è a Michel
Houellebecq e al suo romanzo Sottomissione
(Bompiani) e a sostenerlo è un altro grande scrittore francese a noi
contemporaneo, Emmanuel Carrére, autore del recentissimo Il Regno (Adelphi).
Il romanzo
di Houellebecq, comunque, a leggerlo (e saperlo leggere) bene non è affatto –
come molti pensano o cercano di farlo pensare – una denuncia “à la Fallaci”
sull’invasione musulmana o sulla minaccia jihadista in corso ma un libro sulla più
complessa e contraddittoria mutazione di civiltà che l’Europa starebbe
attraversando.
Che il libro sia la cronaca
di una mutazione attraverso le vicende di un personaggio-io narrante è un dato
di fatto. Il protagonista è una tipica
figura houellebecqiana: docente universitario, specialista di Huysmans, vive
solo e sradicato, non vede i familiari e i parenti da decenni, non ha legami
affettivi stabili, non crede in nulla. Si scalda, da solo, piatti al microonde,
sperimenta solo rapporti erotici prima con
una ragazza ma che la sua onestà patologica gli impedisce di amare. Non aspira
che ad andare a dormire verso le quattro del pomeriggio con una bottiglia di
alcol forte, una stecca di sigarette, una pila di buoni libri che non molti
ormai leggono, e la prospettiva a questo ritmo di morire rapidamente, infelice
e solo. Ovvio che la sua esistenza è pensata e descritta da Houellebecq come
quella di milioni di persone in una postmodernista società globale sempre più diffusa…
Ma il romanzo, a un certo
punto, introduce la trasformazione in corso della percezione pubblica della politica
attraverso la descrizione della elezione presidenziale francese del 2020. Nella precedente tornata, quella del 2017, François Hollande era stato
rieletto per sbarrare la strada a Marine Le Pen, ma intanto s’era manifestata
una nuova forza politica: la Fratellanza musulmana. Il suo leader, Mohammed Ben
Abbes, è un musulmano francese, dal fisico rassicurante del “vecchio droghiere
tunisino di quartiere”, che non si riconosce nell’antisemitismo, sostiene la
causa palestinese ma con circospezione, recluta i suoi seguaci ben al di là
delle popolazioni musulmane. La situazione è quindi inedita: i due grandi
partiti, di centrodestra e di centrosinistra, attorno ai quali si strutturava
la vita politica francese, ma non solo, dalla fine della seconda guerra
mondiale, sono ormai fuori gioco, privi di funzione e rappresentanza. Così come
perdono di centralità i media e il loro teatrino a buon mercato: “La brutale
implosione del sistema di opposizione binario centrosinistra/centrodestra – si
legge nel romanzo – aveva inizialmente sprofondato l’insieme dei media in uno
stato di stupore ai limiti dell’afasia”. Si potevano vede i più popolari
commentatori televisivi “trascinarsi da uno studio tv all’altro, incapaci di
commentare una mutazione storica che non avevano previsto…”. Il dibattito
pubblico è cambiato, è straordinariamente diverso da quelli visti in Europa
negli ultimi decenni, ne sono cambiati gli elementi di discussione. Non più
quelli strettamente economici o di logica economici, ma semmai di ordine
morale. Non a caso, nella Francia di Mohammed Ben Abbes, riprendono vigore le
idee del distributivismo cattolico d’inizio Novecento, l’orientamento prospettato
da HIlaire Belloc e G.K. Chesterton: “La sua idea di base – ricorda Houellebecq
– era la soppressione della separazione tra capitale e lavoro. La sua forma
sostanziale di economia era l’impresa familiare; nel caso si presentasse la
necessità, per determinate produzioni, di riunirsi in entità più ampie, si
doveva fare di tutto perché i lavoratori fossero azionisti della propria
impresa e corresponsabili della sua gestione”. All’inizio del Novecento
declinato in versione cattolica, nel 2020 in versione musulmana, il
distributivismo spinge la nuova Francia verso una serie di trasformazioni:
totale soppressione degli aiuti di stato ai grandi gruppi industriali, adozione
di trattamenti fiscali molto vantaggiosi per l’artigianato e
l’autoimprenditorialità, sollecitazione ai giovani a “mettersi in proprio” più
che a cercare un posto nelle burocrazie. Il passaggio novecentesco al lavoro
salariato generalizzato, spiega ancora Houellebecq, aveva necessariamente
provocato l’esplosione della famiglia e l’atomizzazione completa della società
che, di contro, sarebbe riuscita a rifondarsi solo quando il modello di
produzione normale fosse tornato a basarsi sull’impresa individuale e
familiare.
Su questo
sfondo, nelle pagine di Sottomissione,
mentre la mutazione di civiltà avviene, all’inizio, si è leggermente turbati
nel non vedere più, da nessuna parte, donne che indossino la gonna né, ben
presto, donne che frequentino i luoghi pubblici, ma la Francia ritrova comunque
un ottimismo che aveva perso dalle “Trente glorieuses” (i trenta gloriosi anni
di crescita economica dalla fine della seconda guerra allo choc petrolifero).
Visto che le donne escono dal mercato del lavoro, la curva della disoccupazione
si inverte e si ridefinisce una sorta di società tradizionale e organica… Ed è
proprio sull’organicismo come alternativa al nichilismo e al disincanto
postmoderni che si dipana la trama (come la riflessione filosofica e politica)
dell’intero romanzo. La religione e la spiritualità in quanto tali non
c’entrano nulla: in gioco entra semmai una certa idea della religione come
collante di civiltà, che porta i protagonisti a vivere e praticare l’adesione a
una fede come risoluzione ai problemi personali e sociali. E se all’inizio del
Novecento l’opzione era quella del cattolicesimo così come prospettato da
Charles Maurras e altri autori – progenitori degli identitari e lepenisti di
oggi – Houellebecq delinea un analogo processo possibile attraverso l’adozione
dell’islam. Non è un caso che, nel romanzo, molti ex identitari di estrema
destra passano direttamente all’islam dopo averlo contrastato scoprendo, in
realtà, che la prospettiva possibile è assai simile… E il punto culminante del
libro è la conversazione del
protagonista con un il nuovo rettore della Sorbona islamizzata che, autore di
una tesi su René Guénon, è passato dagli ambienti identitari per approdare
all’islam. Tutto sommato, è forse nelle osservazioni condotte sugli scrittori
cattolici di fine Ottocento e inizio Novecento – Huysmans e Bloy in primis, ma
anche Maurras – si può cogliere l’essenza del romanzo insieme alla sua
incomprensione di fondo del vero cristianesimo. È infatti vero che la
prospettiva viene prospettata come “sottomissione” a una fede e non come
“conversione”, interiore e spirituale. Il narratore alla fine del romanzo si
converte. Ma si tratta di una vera conversione o, piuttosto, di una risoluzione
ai suoi problemi di vita pratica, tutti umani troppo umani (il posto di lavoro,
l’unione e la convivenza con una o più donne, l’alternativa alla solitudine e
al non senso, una rete di contatti e amicizie)? Tutto questo emerge chiaramente
nella non comprensione della visione e della “conversione” di Charles Péguy,
che viene citato come convertito ma di cui, nel libro, non traspare nulla delle
pagine speranza e della trasformazione del cuore apportate dall’incontro con
Cristo.
Ribadiamo
che la “sottomissione” del protagonista del romanzo non ha nulla di spirituale
ma viene descritta solo come l’approdo a un orizzonte organico da parte di un
soggetto disorientato e vuoto che vi si appiglia – come disperato – quale ultima
spiaggia. Niente di diverso, sia ben chiaro, dalla visione del cristianesimo
fatta propria da Maurras, una modalità di presentare il cattolicesimo come
strumento politico e quale collante organico della civiltà occidentale. Tesi
che presentava la presunta identità cristiana non come una prospettiva di fede,
di speranza e di carità ma come sovrastruttura ideologica di unificazione
politica e di civiltà. Tesi che però già negli anni Trenta del Novecento erano
state condannate ufficialmente e sanzionate dalla Chiesa cattolica. Preparata
già dal 1913 da papa Pio X – con
l’esplicito rimprovero di subordinare la
religione alla politica e all’ordine civile – la condanna arrivò infatti il 29
dicembre del 1926 quando papa Pio XI metteva all’indice i libri di Maurras per
decreto del Sant’Uffizio e l’8 marzo del 1927 agli iscritti all’Action
française venivano interdetti i sacramenti. Ma questi tesi, lo sappiamo bene,
hanno ripreso vigore all’inizio del nuovo millennio, attraverso la propaganda
teo-con dei conservatori statunitensi e la vulgata catto-identitaria
dell’estrema destra europea e sono, fortunatamente, state stoppate e rinviate
al mittente dal pontificato di Papa Bergoglio.
È
pensabile, allora, quello che profetizza il romanzo di Houllebecq? E cioè che
questo approccio “non spirituale” alla religione si riproponga, dopo l’epifania
della postmodernità disincantata e secolarizzata, attraverso presunte parole
d’ordine delll’islam, magari attraverso la mediazione intellettuale di Guénon,
e che gli ambienti identitari possano trovare alla fine il loro cavallo di
Troia proprio nell’islam? Come ha commentato Carrére, “non è impossibile che
l’islam più o meno a lungo termine non rappresenti il disastro ma l’avvenire
dell’Europa, come il giudeo-cristianesimo fu l’avvenire dell’Antichità pagana”.
Noi, comunque, non vorremmo che ciò che non è riuscito ai maurassiani possa
riuscire, domani, ai neo-guénoniani. Continuiamo infatti a pensare, proprio con
Charles Péguy, che la conversione non è affatto una questione di risoluzione di
vita pratica così come non è una questione di civiltà, ma un qualcosa che
riguarda (e salva) il cuore della singola persona: “Vi era il cattivo tempo anche sotto i
Romani. Ma Gesù non si rifugiò affatto dietro la disgrazia dei tempi. Egli
tagliò corto in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Che significa
che non incriminò, non accusò nessuno. Egli salvò i singoli. Egli non incriminò
il mondo. Egli salvò”.
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