Luciano Lanna
Il Piper compie cinquant’anni. Quel locale, che apriva
i battenti alle 21 e 30 del 17 febbraio 1965, sarà la culla italiana di tutto
ciò che fermentava nelle giovani generazioni alla metà degli anni ’60. “Il
Piper – si leggeva in Roma alternativa,
una guida del 1975 – fu il centro della Roma beat, freak, pop e rock”.
Attraverso il Piper fece irruzione anche da noi la cultura beat: dapprima
circoscritta alla sola musica elettrificata e amplificata, il termine si
estenderà a definire un abbigliamento, un look, un’estetica, un modo di
esprimersi e di sentirsi lontani dai vecchi schemi. Tutto parte dall’idea di
due personaggi, un avvocato e un imprenditore, che volevano aprire un locale
sul modello di quelli che i giovani frequentavano a Londra e a New York. Nacque
l’idea del Piper, che tradotto in italiano suonava pressappoco come “pifferaio”
o “zampognaro”. In realtà, soltanto le opere d’arte con cui fecero decorare il
locale di via Tagliamento 9, nel quartiere Coppedè, bastavano e avanzavano ad
attrezzare un vero e proprio museo d’arte contemporanea. C’erano due Andy
Warhol, dei Rotella, degli Schifano, dei Rauschenberg, dei Manzoni… Pop art,
beat generation e “Beatles revolution” trovavano un luogo di celebrazione a
Roma. Per la serata d’inaugurazione i due fecero realizzare manifesti a sfondo
rosso su cui campeggiava l’immagine di una bella ragazza svedese. Sopra c’era
scritto: “Apertura del Piper 17 febbraio”. Ha raccontato Bornigia: “Nell’Italia
democristiana, pruriginosa e bigotta del secondo dopoguerra, l’utilizzo di
un’icona femminile, per di più scandinava, come logo di una neonata sala da
ballo, venne subito letto, e in fondo era da leggersi, come provocazione e
intento programmatico, come il segnale di una rottura che era nell’aria e che
noi, più o meno consapevolmente, stavamo veicolando…”.
A rileggere le stesse biografie dei due, entrano subito in crisi i codici e
gli schemi convenzionali di identificazione politico-culturale. Il Piper – ha
scritto il giornalista e scrittore Paolo Conti – “era infatti la scommessa
economica e culturale dell’avvocato Alberico Crocetta, a 15 anni volontario
nella Decima Mas di Junio Valerio Borghese, a 40 innamorato del rock e della
pop art, e dell’imprenditore Giancarlo Bornigia…”. Anche il quale, del resto,
si è raccontato così: “A casa mia non si faceva politica attiva, ma mio padre
era fascista, stava dalla parte di Mussolini…”. Suo padre era stato uno dei
primi a vendere automobili a Roma ed era un grande tifoso della Lazio, della
quale fu anche presidente nella stagione ’54-55… Giancarlo cercava una sua
strada e per tre anni va a lavorare in Africa. Al ritorno l’idea del locale
insieme all’amico Alberico. “Erano anni che sognavano di far ballare i ragazzi
in un locale popolare come questo” dirà all’inaugurazione l’avvocato. “Fu in
America, a New York – ha raccontato Gianni Borgna nel suo fondamentale saggio Il tempo della musica. I giovani da Elvis
Presley a Sophie Marceau – che andando da un night a un altro gli venne in
mente di aprirne una a Roma sul tipo di Small Paradise, un noto locale di
Harlem”. Trovati oltre 100 milioni di lire, fu Crocetta a individuare il posto,
un nuovo palazzo a due pazzi da piazza Buenos Aires. “Era un ritaglio di Londra
affacciato sui Parioli” lo definì Bornigia. Dentro si suonava una musica nuova,
si ballava in modo nuovo. In poche settimane l’onda lunga montò, ben oltre i
confini di Roma. “Il Piper – ha spiegato Tiziano Tarli in Beat italiano – era una zona franca rispetto all’autoritarismo di
tutte le istituzioni. Ci si vestiva come voleva, si ballava scatenati senza
inibizioni o si sedeva per terra. I ragazzi potevano esprimersi e comunicare
con le nuove regole che stavano cercando. Era un posto liberatorio, senza
formalismi”.
Lì dentro si dà convegno tutte le sere il meglio del beat musicale
italiano: i Rokes di Shel Shapiro, l’Equipe 84 di Maurizio Vandelli, i Dik Dik,
Renato Zero, Caterina Caselli e, soprattutto, Patty Pravo, che verrà lanciata
proprio come “la ragazza del Piper”. Lì passano e si esibiscono, tra gli altri,
i Rolling Stones, i Byrds, i Procol Harum, i Pink Floyd, i Genesis, David
Bowie… Da lì parte il fenomeno che coinvolgerà i giovani di tutta Italia
portando, tra l’altro, nel corso del festival di Sanremo del 1966, alla
diffusione di un Manifesto del beat
italiano. A stilarlo sono un giovane cantautore esordiente, Lucio Dalla, il
paroliere Sergio Bardotti e un altro ex della Decima Mas, ma innamoratosi della
rivoluzione di Guevara e Castro, come l’eretico pop Piero Vivarelli (regista,
sceneggiatore, autore delle prime canzoni di Celentano). In quel manifesto, tra
l’altro, si leggeva: “Noi attingiamo alla tradizione, ma non la rispettiamo.
Una tradizione è valida solo in quanto si evolve. Altrimenti interessa solo i
musei”. E ancora: “Siamo senza alcuna riserva, decisamente contro tutti quelli
che non la pensano come noi. Prima che qualcun altro ce lo dica, riconosciamo
subito da soli la necessità di aderire a questa tendenza che, partendo da Ray
Charles, passa attraverso i Beatles e Bob Dylan”.
Ovviamente la reazione dei benpensanti, democristiani e comunisti essi
fossero, non tardò ad arrivare. Ha
raccontato Bornigia: “Il questore di Roma, Di Stefano, il 21
dicembre 1966 chiuse il locale nel pomeriggio dicendo che costituivamo ‘mezzo
di distrazione dei giovani con conseguente sviamento da occupazione e studi’.
Pochi giorni dopo un’interrogazione Dc, firmata da Agostino Greggi e altri,
chiedeva al Viminale di applicare la norma in tutta Italia perché ‘è dovere costituzionale dei genitori educare
i figli e sottrarli ai richiami di chi offre suggestioni per lucro’…».
Da sinistra, erano le
femministe di Noi donne ad andare
all’assalto, già il 27 marzo 1965: “Il Piper è un
mastodontico ingranaggio culturale basato sul mondo dello ye ye, dello shake
che dietro l’aspetto della ribellione nasconde invece una rivolta prefabbricata
che porta stampato il marchio dell’approvazione ufficiale…”. Il sociologo
Alberto Abruzzese lo ha spiegato bene: “Il Piper e la nuova musica beat? La
routine del Pci non consentiva di riconoscere come ‘cultura’ tutto questo anche
per una semplice questione di linguaggio: erano nuovi consumi culturali, come
la tv, che vedevano il partito ben poco attento. E poi era roba venuta comunque
dall’America, quindi suscettibile di riserve…”. Infine è stato Tito Schipa
Junior, il quale nel 1967 proprio lì su musiche di Bob Dylan aveva messo in
scena Opera beat, a ricordarlo a
Paolo Conti in occasione del quarantennale del Piper: “Nel coro cantava anche un
giovanissimo Giuliano Ferrara, alla batteria c’era Achille Manzotti, poi
produttore cinematografico. La sinistra ufficiale italiana ci giudicava borghesi
orientati verso ciò che loro consideravano disimpegno”. Quella del Piper, concludeva Schipa Junior, “fu al contrario una
rivoluzione, nata
dalla borghesia: come tutte le vere rivoluzioni”. Un interrogativo è quindi
lecito: non è che proprio quel vento di cambiamento, quello espressosi – anche
attraverso il Piper – tra il 1965 e il 1969, fosse in realtà la vera
rivoluzione dei costumi e della mentalità la quale, invece, i plumbei e
ideologici anni ’70 hanno poi corrotto, deviato e interrotto? Non è, insomma, che più che dalla
celebrazione della battaglia di Valle Giulia e dalla successiva
militarizzazione del mondo giovanile dovremmo, semmai, ripartire – ricercando cinquant’anni
dopo la via italiana alla modernizzazione – proprio dallo spirito della Piper
generation?
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