Dal romanzo Vittoria, una storia degli anni Settanta (Giubilei Regnani) di Annalisa Terranova un estratto del capitolo "Natale". Auguri a tutti!
Due riti caratterizzavano in particolare il Natale in casa di Vittoria: l’allestimento del presepe e i fritti del cenone della vigilia. Anche l’albero di Natale aveva il suo ruolo, ma era sicuramente più marginale. Intanto doveva essere vero. Quando incominciarono a circolare i finti abeti il padre sentenziò che erano “cose fetuse” e che in casa alberi finti non ne sarebbero mai entrati. L’anno dell’austerity – cioè in occasione del Natale del 1973 – per far vedere alle figlie che la crisi nulla poteva contro la santità delle feste acquistò una serie di palline nuove per l’albero, una più bella dell’altra. Una era rosa circondata di merletti e decorata con pietruzze rosse. Un’altra era dorata e ospitava un piccolo presepe. Un’altra ancora era cosparsa di porporina verde e dentro ospitava un piccolo ramoscello di pungitopo. Nei Natali successivi, quando Vittoria, ormai grande, prendeva la valigia delle decorazioni per addobbare l’albero, quando le capitavano in mano quelle palline, proprio quelle, la mente tornava a figurarsi le feste passate, cedeva all’urto, indiscreto e avvolgente, dei ricordi. Tornavano i Natali dell’infanzia, con quel loro clima speciale, fatto di odori, di attesa, di affetti rafforzati, di un calore interiore che nessuna interferenza esterna poteva disturbare.
Era però il presepe che assorbiva gran parte delle energie domestiche: anche per la localizzazione, si facevano grandi discussioni. Dopo di che si spostavano i mobili in modo che ci fosse spazio per una degna fabbricazione e si ammucchiavano nell’angolo scelto i sostegni del paesaggio sacro. Sgabelli, pile di volumi dell’enciclopedia, tavole di compensato. La prima cosa che il padre posizionava era la grande capanna di sughero. Dopo di che si acquistava il muschio fresco. Poi se ne andavano almeno altre due giornate per “fare le montagne” con la speciale carta colorata di verde e marrone. Quindi si sistemavano le luci, quasi tutte dentro la capanna perché era lì, diceva il padre, che succedeva la cosa più importante. Vittoria era impaziente, e provava a mettere fretta: “Ma quanto ci metti...”, diceva al padre. E lui: “La gatta presciolosa fece i gattini ciechi”. Finalmente, al momento di sistemare le statuine, anche Vittoria e la sorella facevano la loro parte. La madre le conservava avvolte nella carta di giornale e dunque ogni anno, quando si scartavano gli involucri, le frasi abituali erano: “Ho trovato San Giuseppe, ho trovato il pastore con la pecora in spalla, ho trovato la panettiera...”. Ovvia-
mente loro erano felici quando trovavano il Bambinello, che poi veniva preso in custodia dal padre e messo in un cassetto per essere deposto nel presepe solo la sera del 24 dicembre. La neve costituiva l’ultimo tocco: a casa di Vittoria non si usava neve artificiale ma il cotone idrofilo. Si facevano dei piccoli batuffoli di ovatta e si poggiavano qua e là a imbiancare la scena. Se il presepe veniva particolarmente bene, il padre lo fotografava. Così, in molte foto di famiglia, apparivano Vittoria e la sorella, in ginocchio e a mani giunte accanto a uno dei presepi paterni meglio riusciti, illuminato ad arte.
Una volta alla parrocchia di quartiere realizzarono però un presepe più realistico, con scenografia arabeggiante con alte palme e con i re magi che attraversavano il deserto. Niente montagne, niente neve, niente grotta, niente paesaggi appenninici, e non c’era neanche la vecchina che vendeva le caldarroste, uno dei personaggi che Vittoria amava di più. L’insolito allestimento fu commentato in famiglia. Tutti erano delusi e il padre bollò l’iniziativa come un cedimento alle mode straniere. La madre però difese il fondamento storico della scelta: Gesù era nato in Palestina, a conti fatti. E il padre si inalbero: “E che c’entra? Il presepe l’abbiamo inventato noi, e va fatto secondo la tradizione,
se no non è presepe, è un’altra cosa...”.
I genitori di Vittoria si erano sposati a Greccio, cioè proprio nel luogo in cui Francesco d’Assisi aveva allestito la prima Natività. E nella foto in cui guardavano il prete, inginocchiati nella piccola cappella del convento dei frati minori, erano giovani e seri seri, forse persino un po’ smarriti, sicuramente commossi. La madre aveva uno sguardo languido, il padre aveva una faccia ispirata: a Vittoria sembravano bellissimi, ogni volta che guardava quelle immagini. L’abito bianco della madre non era lungo, ma arrivava alle caviglie. Una vera novità, per l’epoca. C’era poi una foto che li ritraeva mentre scendevano la scalinata di pietra: il papà avrebbe voluto aiutare la mamma, ma lei faceva una faccia scocciata, come a dire: ‘Faccio da sola, lasciami in pace’. La madre confermava l’interpretazione: ‘Sì, tuo padre voleva darmi il braccio, ma io sono ’ncitosa, lo sapete”. “Incitosa” significava una che si inalbera subito, una con un bel caratterino incline ad infuriarsi per nulla. Il padre invece la giustificava: “Era emozionata, bisogna capirla...”.
L’altro rito natalizio che si ripeteva ogni anno era la preparazione dei fritti per il cenone. Si acquistavano le verdure al mercato la mattina della vigilia e poi, da metà pomeriggio, la cucina veniva chiusa agli estranei, cioè a Vittoria e alla sorella, e la mamma e il papà friggevano cavolfiori,
zucchine, carciofi e cardi avvolti nella pastella. Una quantità che avrebbe sfamato un esercito. Senza la frittura il cenone della vigilia non sarebbe stato degno dell’occasione speciale e sembrava davvero che il padre ne traesse grande soddisfazione, presentando poi i piatti ricolmi con orgoglio da chef provetto. In quei giorni era consentito usare il cosiddetto servizio buono, che la madre custodiva con
cura certosina. Si trattava dei piatti di porcellana bianca con decorazioni color oro, regalo di matrimonio, che facevano la loro comparsa a tavola solo una volta l’anno, cioè per il cenone di Natale. Oltre ai fritti si mangiavano spaghetti al tonno, merluzzo bollito, panettone e torrone.
Tra le numerose famiglie del condominio di Vittoria quella di Agnese e Sebastiano, che era stato per anni emigrante in Germania a fare l’operaio, organizzava per la sera di Santo Stefano tombolate e giochi di carte con parenti e vicini di casa. Si mangiava panettone fino a tarda notte, poi Agnese serviva i torroni di tutti i tipi e si passava al gioco del mercante in fiera o del sette e mezzo. Vittoria giocava con troppa timidezza, non aveva voglia di sperare nelle carte per non restare delusa, atteggiamento che i giocatori provetti disapprovano: “Se non credi nelle carte, le carte ti puniscono...”. Però assisteva felice al giro della sorte, cercando ogni volta di indovinare chi sarebbe stato toccato dalla buona stella. La vincita ammontava a un massimo di cinquemila lire ma procurava comunque esultanza in quella compagnia di gente abituata alla fatica, che si godeva le feste con animo semplice. C’era in particolare un cugino della signora Agnese che faceva anche lui l’operaio e, prima di mettersi a giocare, si metteva al collo un fazzoletto rosso contro la jella e chiedeva scusa al padre di Vittoria: “Lo so – diceva – è il colore dei comunisti, ma io lo metto solo perché voglio vincere tutto, nun me guarda’ male...”. Poi aveva anche un altro fazzoletto rosso portafortuna in cui metteva le monete per giocare e diceva che non se ne sarebbe andato finché non lo avesse riempito con le cento lire vinte al gioco. Era lui che faceva il mercante in fiera ed era molto bravo a vendere una carta fingendo che fossero almeno tre. Sapeva animare le giocate facendo ridere tutti e, se mancava lui, le serate erano meno divertenti. Se vinceva, offriva vino rosso alla salute dei presenti e qualche goccia era consentita anche a Vittoria, che lo accettava volentieri pur non apprezzandone il gusto troppo aspro, di vino poco ricercato.
Aveva sentito dire che gli operai erano tutti comunisti e le sembrava bizzarro che tra suo padre e quei lavoratori ci fosse così tanta cordialità, finché lui le spiegò che erano i comunisti ad imbrogliare gli operai, che i padroni sfruttavano le loro braccia e il Pci la loro rabbia, mentre il fascismo aveva concesso loro l’assicurazione contro gli infortuni e gli assegni familiari. Un Natale al figlio di Agnese fu regalato un mangiadischi e lui fece ascoltare a Vittoria e alla sorella il brano del momento, Jesahel, che si ballava dondolando le braccia avanti e indietro. Così passarono la serata a sentire e risentire sempre lo stesso ritornello, “Jesahel, nanananana... Jesahel”, finché i grandi non li vennero a cercare perché le giocate erano terminate e bisognava che ognuno se ne andasse a casa sua e quando li sorpresero a ballare col mangiadischi tutti ridevano tra loro dicendo che la sorella di Vittoria e il figlio di Agnese si sarebbero fidanzati, ma Vittoria sapeva che non era possibile perché alla sorella
piaceva il figlio della signora Liliana, quella che faceva le iniezioni in giro per le case e non sorrideva mai. Il figlio era biondo e sempre immerso nei suoi pensieri e ignorava tutti gli altri ragazzini quando si radunavano in cortile. La madre consolava la sorella di Vittoria dicendole che quello non la filava perché era troppo grande, in realtà lui non filava proprio le ragazzine perché non voleva far coppia con le femmine ma con altri maschi, ma questo lo avrebbero scoperto solo più tardi. E quando lo scoprirono in famiglia si parlò del tema proibito dell’omosessualità. E il padre di Vittoria fu perentorio: “Sono persone diverse ma vanno rispettate come tutti gli altri, anzi a volte questo tipo di
persone sono più sensibili, più umane. E poi quello che fanno nella vita privata sono fatti loro”. Il figlio di Agnese, invece, era uno spilungone un po’ allampanato, che da grande voleva fare il carabiniere, e sul possibile fidanzamento con la sorella di Vittoria la mamma scherzava dicendo che sua figlia doveva fidanzarsi minimo minimo con il figlio di un dottore e non certo con il figlio di un operaio.
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