articolo apparso sul quotidiano "il Garantista" martedì 2 dicembre
Luciano Lanna
No, non è facile separare la
maschera (impostasi con gli anni) dal volto (reale) di Marinetti. La difficoltà
sorge comunque spontanea ogni qualvolta si viene invitati a ricordare, a
celebrare, inevitabilmente a codificare un personaggio quale Filippo Tommaso
Marinetti che, per tutto quello che è stato e ha fatto, risulta costitutivamente
refrattario a qualsiasi incasellamento. Come si fa del resto a sintetizzare e a
sistematizzare la vita, il pensiero e l’opera del padre del futurismo, di chi cioè
– mettendo in azione la prima avanguardia storica del Novecento – aveva
esordito invitando a “distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni
specie” e a “combattere contro il moralismo” di ogni tipo? Essendo costretti a
farlo, anche perché ricorre il settantesimo della sua morte, proviamoci cercando
di fare emergere il volto e mettendo in secondo piano la maschera sia di
Marinetti che del futurismo.
Filippo Tommaso Marinetti
(FTM o effe-ti-emme), padre di un approccio nuovo alla cultura e alla vita
fatto di “comprensione” reale del Novecento, di sintonia con il concetto (e la
prassi) di simultaneità e con una concezione del tempo non lineare ma circolare
e compresente, e quindi con lo spirito di mescolamento dei linguaggi e dei
generi, dei materiali e delle sensibilità estetiche, della rottura della
tradizione canonica ottocentesca, con la rottura di ogni compostezza formale di
tipo borghese, di ogni chiusura identitaria, era nato non a caso ad Alessandria
d’Egitto il 21 dicembre 1876, cullato – come lui ha più volte ricordato – dal
richiamo dei muezzin e dal vociare dei bazar musulmani. Ancora nel 1930, nel
suo libro Il fascino dell’Egitto,
confessava d’altronde la sua insopprimibile passione “per il sacro meccanismo
dei dervisci” sino a lasciarsi andare a un atto sincero di ammirazione per
l’universo e la religiosità dell’Islam: “La polvere nostalgica di tutte le
strade d’Africa e d’Asia che le tinge, dialoga con la vicina grande nicchia
santa rivolta alla Mecca, dramma sintetico d’oggetti muti che riassume
l’immenso Islam…”.
Più di qualche critico, in
tempi recenti, ha non casualmente ricollegato proprio a questa situazione
infantile la genesi stessa del paroliberismo e di un’idea non figurativa
dell’arte. Ma ripercorrendo il vero Marinetti (e il vero futurismo) riemergono
tante altre dimensioni che inevitabilmente lo collocano oltre e al di là
l’universo culturale in cui – per pigrizia politicistica – si tenderebbe invece
a sistematizzarlo. Si pensi alla
sintonia con le altre avanguardie e con tutta l’arte cosiddetta “degenerata”,
al rifiuto del razzismo, allo spirito libertario, all’idea di svaticanizzare
l’Italia, all’anticipazione profetica di un’estetica televisiva e di una
percezione multimediale e da internet della comunicazione, alla passione per la
musica jazz, al fatto che uno dei primi a parlare bene di Marinetti e dei
futuristi fu Antonio Gramsci, annotando nel 1921: “Hanno avuto la concezione
netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande
città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di
arte, di filosofia, di costume, di linguaggio…”.
Certo, Marinetti fu
interventista e, con i suoi futuristi, fu tra i primi a dare corpo e anima al
movimento fascista delle origini. Ma, tanto per dire, gli ex anarchici e
futuristi Mario Gioda, segretario del Fascio di Torino, insieme al suo sodale
Libero Tancredi, che si rese poi noto con lo pseudonimo di Massimo Rocca, già
nel dicembre del 1922 avevano avviato un’aspra polemica contro il notabilato
fascista locale, il rassismo e la deriva violenta e illiberale degli
squadristi. Poi, tra alti e bassi, distacchi, polemiche e rapporti ripresi, sarà
sempre il regime ad avere bisogno dei poeti, dei pittori, degli artisti
futuristi. Ed è anche vero che Marinetti, dopo essere andato volontario nella
campagna di Russia a sessantasei anni, aderì a Salò, accettando anche di
presiedere l’Accademia d’Italia, lui che pure da giovane voleva abolire tutte
le accademie… E proprio nella Repubblica fascista, si spegnerà a Bellagio sul
lago di Como, il 2 dicembre 1944, mentre dettava alla moglie Benedetta il
poemetto Quarto d’ora di poesia della
Decima Mas: “Salite in autocarro aeropoeti e via che si va finalmente a farsi
benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini critico mani lambicchi di
ventosi pessimismi…”.
Fatto sta, comunque, che Filippo
Tommaso Marinetti, fondatore e animatore di quella che sarebbe stata definita “l’avanguardia
della contestazione”, tornerà centrale nell’immaginario e nel dibattito
pubblico italiani solo dopo il ’77 e grazie a due artisti, libertari e figli
del miglior ’68: Pablo Echaurren e Andrea Pazienza. Accadde infatti che a un
indiano metropolitano di 26 anni come Echaurren, impastato in realtà di
dada-surrealismo, i conformisti dell’epoca sputassero addosso tutta la loro
insofferenza tacciandolo tout court
di “marinettismo”. Lo ha raccontato lui stesso: “Io, per esempio, mi sono
impegolato nel futurismo italiano in pieno clima degli anni di piombo. E mi ci
sono ingolfato perché un tizio, in un volantino cretino da lui stilato e
firmato, mi aveva accusato di esserne un verace seguace”. Ma Echaurren invece
di subire e indignarsene, prese a studiare, a fissarsi che doveva risalire alle
origini marinettiane, far proprie le scaturigini del suo pensare e agire
controcorrente. All’epoca, del resto, in quel triennio 1977-78-79 Marinetti non
era stato riscoperto e capito: “Per dirla tutta, a destra – ha ricordato Pablo
nel suo libro Nel paese dei bibliofagi
– il suo futurismo era considerato roba da sovversivi e dissacratori
dell’ordine costituito e costruito di tipo Brasini e Piacentini, da adoratori
dei trimotori e spregiatori delle aquile imperiali e dei fori romani. A
sinistra la si riteneva cianfrusaglia da bastonatori, diciannovisti, squadristi
pseudo artisti”. I capoccioni, i solini, i tromboni, i benpensanti di ogni
colore politico gliela facevano pagare cara a Marinetti e al futurismo, a
quelli cioè che le biblioteche volevano bruciarle e i musei abolirli.
Risucchiata nei buchi neri della memoria, criminalizzata dai censori, di
sinistra o tradizionalisti essi fossero, ostracizzata dai redattori delle
pagine culturali che contavano e dai compilatori delle antologie scolastiche,
l’opera di Marinetti giaceva solo nelle bancarelle dei libri usati, sui
cataloghi antiquari, nelle cantine e nelle soffitte degli ex futuristi. Da qui
una sorta di bibliofagia compulsiva che in trent’anni ha fatto di Pablo, insieme
con sua moglie, la critica d’arte Claudia Salaris, i più grandi collezionisti
di futurismo in Italia. E non solo: Echaurren realizzerà anche una storia a
fumetti di Marinetti: Caffeina d’Europa
che, dopo decenni, riproporrà il ruolo effettivo del padre del futurismo al
grande pubblico della cultura pop.
Lo stesso approccio e la
stessa passione per il futurismo verranno celebrati anche da Andrea Pazienza,
il celebre Paz, altro grande artista e fumettista della generazione degli anni
Settanta, scomparso prematuramente nel 1988 a 32 anni, in una poesia risalente
proprio al 1977 e il cui manoscritto è stato riprodotto nel bel libro a fumetti
Le straordinarie avventure di Pentothal.
E lì Paz celebrava le matrici profonde dell’immaginario della sua generazioni:
“Amo Lacerba e Giovanni Papini / Amo Georges Mathieu / amo Ezra Pound,
fascista… / e Balla Boccioni Segantini Severini Carrà; / Marinetti Filippo
Tommaso, fascisti / li amo…”. Una dichiarazione, un omaggio postumo che, in
qualche modo, riusciva a ricollocare FTM all’interno dell’incandescenza
creativa del miglior Novecento. Se infatti qualche nome dovesse essere fatto per
immaginare gli eredi di FTM si dovrebbe andare a Marshall McLuhan, a Guy
Debord, a Steve Jobs e a Bill Gates… Il resto, avrebbe detto Filippo Tommaso,
sarebbe solo passatismo…
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