martedì 2 dicembre 2014

Filippo Tommaso Marinetti 70 anni dopo



articolo apparso sul quotidiano "il Garantista" martedì 2 dicembre


Luciano Lanna

No, non è facile separare la maschera (impostasi con gli anni) dal volto (reale) di Marinetti. La difficoltà sorge comunque spontanea ogni qualvolta si viene invitati a ricordare, a celebrare, inevitabilmente a codificare un personaggio quale Filippo Tommaso Marinetti che, per tutto quello che è stato e ha fatto, risulta costitutivamente refrattario a qualsiasi incasellamento. Come si fa del resto a sintetizzare e a sistematizzare la vita, il pensiero e l’opera del padre del futurismo, di chi cioè – mettendo in azione la prima avanguardia storica del Novecento – aveva esordito invitando a “distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie” e a “combattere contro il moralismo” di ogni tipo? Essendo costretti a farlo, anche perché ricorre il settantesimo della sua morte, proviamoci cercando di fare emergere il volto e mettendo in secondo piano la maschera sia di Marinetti che del futurismo.
Filippo Tommaso Marinetti (FTM o effe-ti-emme), padre di un approccio nuovo alla cultura e alla vita fatto di “comprensione” reale del Novecento, di sintonia con il concetto (e la prassi) di simultaneità e con una concezione del tempo non lineare ma circolare e compresente, e quindi con lo spirito di mescolamento dei linguaggi e dei generi, dei materiali e delle sensibilità estetiche, della rottura della tradizione canonica ottocentesca, con la rottura di ogni compostezza formale di tipo borghese, di ogni chiusura identitaria, era nato non a caso ad Alessandria d’Egitto il 21 dicembre 1876, cullato – come lui ha più volte ricordato – dal richiamo dei muezzin e dal vociare dei bazar musulmani. Ancora nel 1930, nel suo libro Il fascino dell’Egitto, confessava d’altronde la sua insopprimibile passione “per il sacro meccanismo dei dervisci” sino a lasciarsi andare a un atto sincero di ammirazione per l’universo e la religiosità dell’Islam: “La polvere nostalgica di tutte le strade d’Africa e d’Asia che le tinge, dialoga con la vicina grande nicchia santa rivolta alla Mecca, dramma sintetico d’oggetti muti che riassume l’immenso Islam…”.
Più di qualche critico, in tempi recenti, ha non casualmente ricollegato proprio a questa situazione infantile la genesi stessa del paroliberismo e di un’idea non figurativa dell’arte. Ma ripercorrendo il vero Marinetti (e il vero futurismo) riemergono tante altre dimensioni che inevitabilmente lo collocano oltre e al di là l’universo culturale in cui – per pigrizia politicistica – si tenderebbe invece a sistematizzarlo.  Si pensi alla sintonia con le altre avanguardie e con tutta l’arte cosiddetta “degenerata”, al rifiuto del razzismo, allo spirito libertario, all’idea di svaticanizzare l’Italia, all’anticipazione profetica di un’estetica televisiva e di una percezione multimediale e da internet della comunicazione, alla passione per la musica jazz, al fatto che uno dei primi a parlare bene di Marinetti e dei futuristi fu Antonio Gramsci, annotando nel 1921: “Hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio…”.
Certo, Marinetti fu interventista e, con i suoi futuristi, fu tra i primi a dare corpo e anima al movimento fascista delle origini. Ma, tanto per dire, gli ex anarchici e futuristi Mario Gioda, segretario del Fascio di Torino, insieme al suo sodale Libero Tancredi, che si rese poi noto con lo pseudonimo di Massimo Rocca, già nel dicembre del 1922 avevano avviato un’aspra polemica contro il notabilato fascista locale, il rassismo e la deriva violenta e illiberale degli squadristi. Poi, tra alti e bassi, distacchi, polemiche e rapporti ripresi, sarà sempre il regime ad avere bisogno dei poeti, dei pittori, degli artisti futuristi. Ed è anche vero che Marinetti, dopo essere andato volontario nella campagna di Russia a sessantasei anni, aderì a Salò, accettando anche di presiedere l’Accademia d’Italia, lui che pure da giovane voleva abolire tutte le accademie… E proprio nella Repubblica fascista, si spegnerà a Bellagio sul lago di Como, il 2 dicembre 1944, mentre dettava alla moglie Benedetta il poemetto Quarto d’ora di poesia della Decima Mas: “Salite in autocarro aeropoeti e via che si va finalmente a farsi benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini critico mani lambicchi di ventosi pessimismi…”.
Fatto sta, comunque, che Filippo Tommaso Marinetti, fondatore e animatore di quella che sarebbe stata definita “l’avanguardia della contestazione”, tornerà centrale nell’immaginario e nel dibattito pubblico italiani solo dopo il ’77 e grazie a due artisti, libertari e figli del miglior ’68: Pablo Echaurren e Andrea Pazienza. Accadde infatti che a un indiano metropolitano di 26 anni come Echaurren, impastato in realtà di dada-surrealismo, i conformisti dell’epoca sputassero addosso tutta la loro insofferenza tacciandolo tout court di “marinettismo”. Lo ha raccontato lui stesso: “Io, per esempio, mi sono impegolato nel futurismo italiano in pieno clima degli anni di piombo. E mi ci sono ingolfato perché un tizio, in un volantino cretino da lui stilato e firmato, mi aveva accusato di esserne un verace seguace”. Ma Echaurren invece di subire e indignarsene, prese a studiare, a fissarsi che doveva risalire alle origini marinettiane, far proprie le scaturigini del suo pensare e agire controcorrente. All’epoca, del resto, in quel triennio 1977-78-79 Marinetti non era stato riscoperto e capito: “Per dirla tutta, a destra – ha ricordato Pablo nel suo libro Nel paese dei bibliofagi – il suo futurismo era considerato roba da sovversivi e dissacratori dell’ordine costituito e costruito di tipo Brasini e Piacentini, da adoratori dei trimotori e spregiatori delle aquile imperiali e dei fori romani. A sinistra la si riteneva cianfrusaglia da bastonatori, diciannovisti, squadristi pseudo artisti”. I capoccioni, i solini, i tromboni, i benpensanti di ogni colore politico gliela facevano pagare cara a Marinetti e al futurismo, a quelli cioè che le biblioteche volevano bruciarle e i musei abolirli. Risucchiata nei buchi neri della memoria, criminalizzata dai censori, di sinistra o tradizionalisti essi fossero, ostracizzata dai redattori delle pagine culturali che contavano e dai compilatori delle antologie scolastiche, l’opera di Marinetti giaceva solo nelle bancarelle dei libri usati, sui cataloghi antiquari, nelle cantine e nelle soffitte degli ex futuristi. Da qui una sorta di bibliofagia compulsiva che in trent’anni ha fatto di Pablo, insieme con sua moglie, la critica d’arte Claudia Salaris, i più grandi collezionisti di futurismo in Italia. E non solo: Echaurren realizzerà anche una storia a fumetti di Marinetti: Caffeina d’Europa che, dopo decenni, riproporrà il ruolo effettivo del padre del futurismo al grande pubblico della cultura pop.
Lo stesso approccio e la stessa passione per il futurismo verranno celebrati anche da Andrea Pazienza, il celebre Paz, altro grande artista e fumettista della generazione degli anni Settanta, scomparso prematuramente nel 1988 a 32 anni, in una poesia risalente proprio al 1977 e il cui manoscritto è stato riprodotto nel bel libro a fumetti Le straordinarie avventure di Pentothal. E lì Paz celebrava le matrici profonde dell’immaginario della sua generazioni: “Amo Lacerba e Giovanni Papini / Amo Georges Mathieu / amo Ezra Pound, fascista… / e Balla Boccioni Segantini Severini Carrà; / Marinetti Filippo Tommaso, fascisti / li amo…”. Una dichiarazione, un omaggio postumo che, in qualche modo, riusciva a ricollocare FTM all’interno dell’incandescenza creativa del miglior Novecento. Se infatti qualche nome dovesse essere fatto per immaginare gli eredi di FTM si dovrebbe andare a Marshall McLuhan, a Guy Debord, a Steve Jobs e a Bill Gates… Il resto, avrebbe detto Filippo Tommaso, sarebbe solo passatismo…


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